In alcune aree italiane il periodo dagli anni ’50 (l’epoca delle carte IGM) agli anni ’90 ha fatto segnare un incremento delle aree urbanizzate del 270%. Nell’area tra Mestre e Padova le aree urbanizzate sono passate dal 13,5% al 36,6%; nell’area milanese, invece, rispetto al 35,2% iniziale si arriva al 71,8% di oggi. Nell’area pianeggiante del Comune di Prato, il fenomeno della dispersione insediativa ha finito per occupare oltre il 60% della superficie disponibile. Qui i materiale del progetto Moland del Joint Research Centre di Ispra.
Dal 1974 a oggi, in Emilia-Romagna, cioè in una delle regioni probabilmente meglio pianificate d’Italia, la superficie urbanizzata è aumentata di oltre il 100%. Sotto il profilo socioeconomico, però, non mi sembra si siano verificati eventi tali da giustificare la costruzione di una nuova regione urbana in così poco tempo. E’ probabile che altre regioni italiane abbiano avuto dinamiche ancora più diffusive, solo che non se ne dispongono i dati.
L’erosione continua e l’interclusione degli spazi agricoli e forestali nell’urbanizzato, che ha ridotto la superficie dei terreni agricoli negli ultimi 50 anni da 28 milioni di ha ai 19,6 attuali, riduce la capacità di rigenerazione del sistema ambientale, la mitigazione degli eventi meteorici intensi e la (almeno parziale) autosufficienza alimentare (e quindi la sicurezza).
Basti la descrizione di Bonomi e Abruzzese riferita a La città infinita per comprendere appieno questo rilevantissimo fenomeno della contemporaneità.
In alcuni paesi sono state predisposte specifiche politiche pubbliche a contrasto del fenomeno: in Germania, sono state attuate azioni federali (e poi dai singoli Laender) per diminuire il consumo di suolo dai 120 ha al giorno rilevati tra il 1997 e 2000 a 30 ha, con l’obiettivo pari a zero nel medio-lungo periodo; in Francia, il Plan Local d’Urbanisme previsto dalla legge Solidaritè et Renouvellement Urbain del 2000 prevede l’arresto del consumo di suolo; negli Stati Uniti, il governo federale blocca i finanziamenti per le nuove infrastrutture alle regioni in cui, per la dispersione degli insediamenti, il traffico è tale da inquinare l’aria oltre le soglie definite dal Clean Air Act.
Tra i più importanti obiettivi per una legge nazionale sul governo del territorio, cioè obiettivi realmente meritevoli di interesse da parte dello Stato, vi sono quindi senza dubbio:
a) la limitazione dei consumi di suolo per nuove urbanizzazioni che fa capo a un principio regolatore di efficienza dell’utilizzo delle risorse;
b) il porre un freno alla frammentazione e alla banalizzazione del territorio che, viceversa, fa capo a un principio di rispetto di massa critica.
Per quanto sub a), sembra indispensabile che una legge nazionale ponga alle Regioni almeno il problema di considerare il fenomeno dello sprawl e del consumo di suolo, di monitorarlo e misurarlo e, infine, di cercare di limitarlo. Dall’applicazione del principio generale ne consegue che, per la risorsa suolo, ognuno avrebbe l’onere di giustificare interveti su suoi non urbanizzati e, al contempo, sarebbero ammissibili sistemi di tassazione differenziata tali da colpire specificatamente le urbanizzazioni greenfield (a vantaggio, ad esempio, di urbanizzazione brownfield ovvero greyfield).
Per le risorse energetiche, invece, il principio generale spingerebbe verso insediamenti addensati segnatamente lungo le linee di forza del trasporto pubblico.
Per quanto sub b), l’applicazione del principio generale enunciato significherebbe un deciso contrasto alla dispersione insediativa, i cui ingenti costi collettivi sono stati più volte indagati, alla frammentazione delle reti ecologiche e alla messa a rischio dell’assetto idrogeologico.
Così com’è (cfr. articolo 3 recante “sostenibilità”) nel progetto di legge dell’Unione mi sembra viceversa che il contenimento del consumo di suolo sia poco più di un’intenzione. Forse è un po’ poco rispetto a quello che dovrebbe essere un obiettivo di merito centrale delle politiche territoriali oggi in Italia.
Sarebbero, viceversa, necessarie alcune disposizioni di principio a carattere “sostanziale” finalizzate a contenere al massimo l’utilizzazione del territorio non urbanizzato, sia in prevalente condizione naturale sia oggetto di attività agricola o forestale, per realizzarvi nuovi insediamenti di tipo urbano o ampliamenti di quelli esistenti, ovvero nuovi elementi infrastrutturali, nonché attrezzature puntuali, e comunque manufatti diversi da quelli strettamente funzionali all'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale.
In altri termini, bisogna prescrivere e rigidamente applicare regole che prescrivano la rigorosa dimostrazione della necessità sociale di ogni sottrazione di un metroquadrato di terra alle utilizzazioni non urbane.
1) Dovrebbe essere perentoriamente affermato che “nuovi impegni di suolo a fini insediativi e infrastrutturali sono consentiti esclusivamente qualora non sussistano alternative di riuso e riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti”.
2) E allo stesso fine il testo di legge dovrebbe dettare i principi fondamentali da rispettarsi nella legislazione regionale per disciplinare le trasformazioni (fisiche e/o funzionali) ammissibili nel territorio non urbanizzato, riproponendo un modello di disciplina già sperimentato, seppure a diversi livelli di compiutezza e di rigore, ma comunque per consistenti periodi di tempo, in diverse regioni (Calabria, Campania, Lazio, Emilia – Romagna, Piemonte, Sardegna, Toscana, Umbria, Veneto, Provincia autonoma di Bolzano), e, anche per tale ragione, assunto come punto di riferimento: ”Le leggi regionali assicurano che, sul territorio non urbanizzato, gli strumenti di pianificazione non consentano nuove costruzioni, né demolizioni e ricostruzioni, o consistenti ampliamenti, di edifici, se non strettamente funzionali all'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale, nel rispetto di precisi parametri rapportati alla qualità e all'estensione delle colture praticate e alla capacità produttiva prevista, come comprovate da piani di sviluppo aziendali o interaziendali, ovvero da piani equipollenti previsti dalle leggi. Le leggi regionali stabiliscono che le trasformazioni siano assentite previa sottoscrizione di apposite convenzioni nelle quali sia prevista la costituzione di un vincolo di inedificabilità, da trascrivere sui registri della proprietà immobiliare, fino a concorrenza della superficie fondiaria per la quale viene assentita la trasformazione, nonché l'impegno a non operare mutamenti dell’uso degli edifici, o delle loro parti, attivando utilizzazioni non funzionali all’esercizio delle attività agro-silvo-pastorali, e a non frazionare né alienare separatamente i fondi per la parte corrispondente all'estensione richiesta per la trasformazione ammessa.”
3) L’operazione dovrebbe essere rafforzata aggiungendo alle categorie di elementi e componenti territoriali qualificati ope legis quali beni paesaggistici a norma del comma 1 dell’articolo 142 del “Codice dei beni culturali e del paesaggio” approvato con decreto legislativo 22 gennaio 2004, n.42, quella del “territorio non urbanizzato sia in prevalente condizione naturale sia oggetto di attività agricola o forestale”.
4) Infine, occorre che il livello di pianificazione provinciale venga investito del compito (e della relativa competenza) di operare le scelte “le scelte per le quali la scala del comune non è adeguata a governare la localizzazione, il dimensionamento e gli effetti delle trasformazioni e degli interventi. Ciò vale, in particolare, per il riordino delle aree conurbate, promuovendo il contenimento della dispersione insediativa.”
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