venerdì 24 giugno 2011

intervista sul colore

Con la signora che sta nella stanza accanto, ci siamo trovati a rispondere ad alcune domande relative alla psicologia del colore per una rivistina che si occupa di salute e benessere.

Oltre all’attenzione alla funzionalità, nel progetto è fondamentale l’approfondimento del rapporto tra lo spazio e la psicologia, e l’uso del colore è fattore essenziale del benessere. La tesi dello studio è che l’utilizzo consapevole del colore può contribuire alla riduzione della cosiddetta Sick Building Syndrome, migliorare il comfort ambientale e determinare altresì contenuti emozionali positivi.

Esiste un rischio inquinamento imputabile al colore dei nostri ambienti?
Certo! Gli ambienti indoor e gli spazi aperti in cui viviamo o lavoriamo sono caratterizzati da agenti inquinanti che attengono la qualità della luce e dell’aria, l’igiene, l’assenza di rumore. Un aspetto su cui però non si presta adeguata attenzione è il pericolo dell’inquinamento cromatico: una gran quantità di arredi, apparecchi tecnologici, accessori, finiture, lampade dei più disparati colori e materiali -a volte scelti in assenza di un programma o di un progetto adeguato o frutto di economici interventi di recupero- invece di rappresentare immagini di spazi dinamici, armonici ed efficienti determinano solo malesseri.
Sono noti i disagi provocati da ambienti monocromatici. L’eccessivo utilizzo del poco impegnativo “tutto bianco”, finisce per provocare sensazioni di disorientamento e di claustrofobia. L’eccessivo utilizzo del colore bianco, infatti, aumenta anche i rischi di abbagliamento, di restringimento della pupilla, oltre a rendere più difficile la messa a fuoco, a rendere difficoltosa la concentrazione.

Com’è considerato il colore nella produzione edilizia attuale?
Luce e colore sono fattori determinanti dell’ergonomia visiva e fonti della maggiore carica emotiva che lo spazio può offrire. Nella produzione edilizia corrente, invece, il colore è per lo più preso in considerazione riduttivamente, al massimo per le sue possibilità e valenze estetico-decorative; non fa quasi mai parte dello start-up progettuale come elemento fondamentale, viene identificato come quel superficiale elemento di rivestimento con cui nascondere o rendere visibili e plausibili, o maggiormente appetibili, superfici anonime: l'uso del colore ha così progressivamente perso quel vocabolario di significati e conoscenza che lo hanno reso simbolico protagonista nella storia dell’arte e del costruire.
La ricerca del “giusto” colore è, infatti, un antidoto alla grigia quotidianità, condiziona l’umore, ci trasmette serenità, disponibilità ai rapporti interpersonali e ci predispone all’ottimismo.
Un consapevole uso del binomio luce-colore, può, da un lato, superare il dualismo tra l’esterno e l’interno e, dall'altro, incrementare le risposte fisiologiche e psicologiche ai diversi stimoli prodotti all'interno dell’ambiente che dovrà rispondere a vari stimoli, da quello della socializzazione di gruppo fino a quello individuale.

Nei vostri progetti, quali sono gli effetti del colore più considerati?
Nei progetti curati dal nostro studio tendiamo a considerare con particolare attenzione gli effetti psicologici. Questi ultimi attengono a una serie di cambiamenti nel modo di sentire, interpretare, valutare e agire che gli esseri umani mettono in atto rispetto agli stimoli procurati dal colore: dall’espressione di sé alla relazione con gli altri; l’attrattività in relazione agli aumentati bisogni di sicurezza; le sinestesie percettive che, attraverso il colore, sostituiscono la visione con gli altri sensi.
Ad esempio, alcuni tipici riflessi del colore sulla psicologia del fruitore, costituiscono i risvolti operativi di un consapevole progetto: i colori schiariti inducono rilassatezza (luminosità), i colori molto saturi eccitazione (saturazione), i colori scuri robustezza, ma succede anche che i colori di un ambiente modificano la percezione di quello successivo.

Quindi il colore non solo una funzione estetica.
Assolutamente no. Ogni spazio architettonico non ha un colore ma ha il “suo colore”, cioè il colore più adatto per lo scopo specifico di quel determinato spazio. Se opportunamente studiato e scelto nella giusta tonalità, saturazione e luminosità, il colore diventa un potente strumento a disposizione dei progettisti, al fine di ottenere l’umanizzazione degli ambienti costruiti, modificare le proporzioni e la percezione degli spazi, determinare aspettative, differenziare situazioni di attenzione. L’utilizzo del colore deve sempre esprimere e coordinare tutto questo.
Scegliere colori appropriati per le nostre abitazioni e gli ambienti di lavoro non si configura quindi come una scelta decorativa ma soprattutto come un’azione terapeutica. Solo successivamente l’uso del colore avrà anche una funzione puramente estetica.

Qual è stata l’esperienza in cui il rapporto tra spazio e colore è più intensa?
Nell’ambito della nostra ricerca progettuale, molto significativa è stata l’esperienza con i bambini e con i ragazzi, sia nel caso di case ove ci sono figli, sia nel caso di scuole o di giardini specificatamente dedicati ai minori.
Le scuole o i giardini sono stati un luogo privilegiato della nostra ricerca di ergonomia del colore: è assai evidente la funzione formativa e quanto peso abbia la sensazione di benessere dei ragazzi sul loro rendimento e, alla lunga, sull'investimento intellettuale di cui questi spazi sono oggetto.
Ad esempio, nelle zone di ricreazione, negli atrii di ingresso, nei corridoi abbiamo impiegato i colori più saturi ed estroversi. Per le aule e i laboratori, invece, abbiamo scelto colori che favoriscono la concentrazione, ad esempio, il giallo per la parete posteriore alla cattedra.



Un consiglio prima di chiudere.
Prima di affidarvi a un architetto per la scelta dei colori, fate attenzione ai vostri gusti. E poi domandate di che colore intende “colorare” la vostra casa… se ve ne propone qualcuno prima di chiedervi quale atmosfera vi piacerebbe abitare… vedete voi se affidargli la vostra “salute”.

giovedì 9 giugno 2011

partnership pubblico-privato e giudici

Sempre a proposito del rapporto tra crisi e professione di cui parlavo ieri, sull'ultimo numero della rivista Inarcassa (che, per la verità, al massimo sfoglio) c'è un contributo di Emanuele Nicosia intitolato "Gli scenari della professione di architetto". 
Alla fine del pezzo, a partire da una ricerca Cresme-CNA, sono indicati i driver del cambiamento per la sostenibilità della professione. Si citano l'innovazione tecnologica, la gestione (e non più solo la fase costruttiva), la sostenibilità ambientale e quella sociale. Tutto condivisibile. Poi c'è anche la costruzione della partnership pubblico-privato, "l'unica strada per il futuro vista la forte riduzione di risorse pubbliche di questi ultimi anni... (al fine di) coniugare interessi privati e pubblici per moltiplicare le potenzialità di investimento". Anche in questo caso, sarebbe tutto condivisibile. Però ci vorrebbe un diverso Paese, cioè un Paese ove allorché lo sviluppo della sussidiarietà orizzontale non finisca, quasi inevitabilmente, sul tavolo di qualche giudice. E su questo deficit culturale, le rappresentanze di categoria qualche azione potrebbero anche metterla in cantiere. Altrimenti prevale il clima giustizialista di Rep., il Fatto quotidiano e similari. E la partnership pubblico-privato, al più, va bene per scrivere articoli. 

mercoledì 8 giugno 2011

la rappresentanza e la crisi

Lunedì prossimo a Imperia si discute dello stato della professione di architetto a partire dalle iniziative del CNAPPC e di Inarcassa per superare il momento di crisi. Che dire. Personalmemte poco o niente, perché sarò ad ascoltare. Però spero di non sentire ancora una volta che la soluzione sia una legge per l'architettura che, tra le altre cose, promuova i concorsi.

Non ho risposte preconfezionate. Però mi piacerebbe che qualcuno iniziasse a cavalcare altri temi. Ad esempio, quello della costante sottovalutazione della spesa in conto capitale. Ogni tanto, soprattutto su Il Sole 24, si leggono notizie di bandi bloccati (come questa). Oppure di utilizzi distorti di fondi pubblici che, e non è casuale, finiscono sempre per andare a finanziare la spesa di parte corrente (come questa sul FAS oppure questa sul TFR).
Non sto a sindacare se le infrastrutture che oggi sono bloccate per mancanza di fondi siano così determinanti. Forse è anche vero che gli stessi fondi potrebbero essere destinati ad altri e più proficui utilizzi. Dico semplicemente che considerare la spesa in conto capitale quale voce di spesa "voluttuaria" e comprimibile, una vera e propria variabile residuale nel quadro delle erogazioni pubbliche -oltre a dare un danno a chi sugli investimenti pubblici in infrastrutture si guadagna da vivere- non porterà molto lontano l'intero paese.

La spesa per investimenti contribuisce alla crescita della produttività totale dei fattori, e quindi, alla crescita di lungo periodo. Pensare di farne a meno condanna il paese al declino. Dato che oggi, di crescita, un pò tutti parlano, potrebbero anche parlarne gli architetti.