venerdì 26 dicembre 2008

Braccia che erano rubate all'agricoltura

Da Marco Sarli su Diario della crisi finanziaria leggo una gustosa chiosa sul futuro (o, meglio, già il presente) dei bankers dopo il terribile anno che si va chiudendo. E' una sorta di buon anno in anticipo?

"...gli espulsi dal dorato mondo dell’investment banking, un foltissimo esercito di donne e di uomini che sono stati costretti ad abbandonare, talvolta in massa e con gli scatoloni in mano come nel caso di Lehman Brothers, la loro attività a ciclo continuo, basata (...) su ritmi difficilmente sostenibili da persone non ben addestrate e altrettanto, se non più, ben remunerate e motivate, molte delle quali, dopo il repentino, brusco e amaro risveglio, necessitanti di adeguato supporto psicologico, se non di un vero e proprio percorso di disintossicazione dopo anni, se non decenni, di blackberry, telefoni cellulari sempre accesi, monitor Reuters o Bloomberg accesi anche nell’initimità della camera da letto.
(...) una parte almeno di queste persone è dato alle attività più disparate, da corsi di cucina per bambini alla meditazione più o meno trascendentale, dalla scrittura al sacerdozio, dal ritorno alla terra all’insegnamento, dal volontariato all’artigianato. Consiglio a chi non l’avesse ancora visto il film Una buona annata, opera quasi profetica di quanto stiamo vivendo."

sabato 20 dicembre 2008

VINEX: Leidsche Rijn a Utrecht

A proposito di VINEX, può essere utile provare ad approfondire la conoscenza attraverso lo studio di un caso specifico. Il Leidsche Rijn a Utrecht è uno dei VINEX più grandi che siano mai stati messi in cantiere.

Il materiale utilizzato è stato tratto da “Creare spazio, condividerlo” - Una riflessione critica sulla pianificazione del welfare urbano nei Paesi Bassi di Sergio Celestino (Dottorando del XVI ciclo in Pianificazione territoriale e Progetto locale, Università di Roma Tre).

Nell’aprile 1994 i comuni di Utrecht, Vleuten e De Meern decidono di procedere alla formazione di un masterplan per il complesso VINEX del Leidsche Rijn: si tratta infatti di costruire ben 30.000 abitazioni per un totale di circa 80.000 residenti, 700.000 mq di uffici e 280 ettari di zone produttive per oltre 40.000 occupati, a ridosso di Utrecht.

Il masterplan prevede 12 comparti attuativi, per i quali si provvedono dei criteri progettuali abbastanza flessibili in modo da poter effettuare correzioni nel tempo. Al momento ne sono stati
realizzati quattro: Langerak, Parkwijk, Veldhuizen e De Wetering. Il tempo di attuazione previsto è di circa 20 anni.


(ph tratta da http://www.flickr.com/photos/saskia_boesveldt/2335956996/)

Il tema principale del progetto è quello di fare un'addizione alla città esistente, quasi intesa in senso rinascimentale o rossettiano, con necessità di forte integrazione con quest’ultima e in presenza di una consistente barriera infrastrutturale da superare, costituita dalla A2 e dalla ferrovia.
Il masterplan assume le seguenti considerazioni quali basi del progetto:
1) 20 anni sono un periodo di tempo straordinariamente lungo. Per questo motivo non si può pensare di progettare tutto oggi, ma bisogna immaginare una città con dei ‘buchi’, come una groviera, in cui dosare zone pianificate e isole di “attraente anarchia liberista”;
2) ogni elemento preesistente di valore deve essere mantenuto. Le caratteristiche storicoculturali, ambientali e paesistiche devono diventare le invarianti al progetto;
3) far sparire l’autostrada: l’unico modo per superare la barriera che separa le due parti di città è quello di coprirla. Solo così si potranno aggirare le norme che, imponendo di non realizzare abitazioni nella fascia di rispetto di 600 m, aggravano la dicotomia tra città esistente e città nuova. E’ significativo annotare che questo esempio è preso a spunto per dimostrare l’inutilità delle norme rigide e dello zoning in generale;
4) Il miglior modo per integrare l’autostrada con la città è costruirci sopra. Interrandola di circa un metro, utilizzando la terra per costruire leggeri pendii ai lati è possibile coprire l’autostrada con un ponte largo 2 km e trattare la superficie come un pezzo di città;
5) Realizzare un parco urbano nel centro invece che in periferia. In questo modo la distanza tra abitanti e il loro verde sarà considerevolmente ridotta, mentre aumenterà il confine tra città e parco, esponendo al contatto diretto con il verde una maggior superficie urbana (il che avrà anche importanti riflessi sul mercato delle residenze);
6) Combattere il concetto di circonvallazione, evitando di dar vita a nuove barriere. Meglio realizzare un sistema a rete, più flessibile e meno impattante;
7) Il Leidsche Rijn non è un piano a ‘geometria singola’, ma la sovrapposizione di 7 progetti tematici, ciascuno dei quali descrive un aspetto della qualità spaziale: programma, densità, dispersione, integrazione, profili, controllo e specificità (chiamato “fattore UX”).


(ph tratta da http://www.flickr.com/photos/7839903@N02/2890002145/)

I temi progettuali più delicati, rispetto ai quali si rende necessario monitorare la rispondenza delle realizzazioni agli obiettivi enunciati nel masterplan, secondo i documenti programmatici sono stati:
- un bilanciamento delle tipologie e delle categorie di prezzo delle abitazioni, per garantire il mercato da un lato e le fasce di popolazione a basso reddito dall’altro, con una quota di edilizia
sociale del 30%;
- l’integrazione con i quartieri circostanti, resa più difficile dalla presenza dell’autostrada A2 e della ferrovia che delimitano la periferia di Utrecht, e con i paesi di Vleuten e De Meern, che verranno praticamente inglobati dal nuovo quartiere;
- l’accessibilità del trasporto pubblico; in questo senso si prevedono tre nuove stazioni metropolitane integrate da una fitta rete di trasporto su autobus, con percorsi a piedi per raggiungere le fermate di massimo 400 m.;
- un uso dell’offerta di sosta e parcheggio in grado di perseguire la riduzione del traffico privato;
- una buona diversificazione dello spazio urbano, elemento principe della qualità dei nuovi insediamenti olandesi;
- la realizzazione di un vasto parco centrale, a tutela della qualità ambientale dell’intero insediamento e dell’identità dei due paesi preesistenti.

(ph tratta da http://www.flickr.com/photos/bsidez/111317687/)

tagliare i tassi quando le banche chiedono di "rientrare"

Le banche centrali, segnatamente FED e Banca Nazionale Svizzera, continuano ad abbassare i tassi in modo aggressivo.
Oltre a essere un buon indicatore dei oluoghi ove programmare le proprie vacanze, in ragione della coinseguente debolezza delle monete, la domanda è: sarà sufficiente a stimolare l'economia?

Leggo articoli relativi all'esperienza giapponese: non sono molto incoraggianti.
Una volta che si è arrivati al costo zero, inoltre, le cartucce sono finite. Già facco fatica a comprendere il tasso di sconto pari a 0, figuriamoci il tasso negativo.
Infine, una considerazione legata all'esperienza di tutti i giorni: provare a stimolare i consumi facilitando l'accesso al credito non mi sembra sia destinata a funzionare molto in una situazione in cui:
a) l'accesso al credito è sempre più difficoltoso
b) le famiglie e le imprese tendono (o, anche, sono invitate dagli istituti di credito) a ridurre i debiti e non ad aumentarli.

Spero di sbagliarmi. E tanto.

mercoledì 17 dicembre 2008

prima di buttarli via, mi ripasso il VINEX

Le politiche abitative olandesi vanno superando l'ormai "vecchio" Programma Vinex. Prima di buttarlo, però, sarebbe bene anderselo un pò a rivedere.
Il supplemento alla IV Nota del 1990 programmava la realizzazione di 750.000 abitazioni nel periodo 1995-2005.
L’idea contenuta nel documento era che i complessi VINEX avrebbero costituito una decisa discontinuità con i grandi complessi residenziali degli anni ’60 e ’70: insiemi monotoni e ripetitivi di edifici dispersi, collegati da percorsi automobilistici sinuosi e sovradimensionati, secondo la concezione modernista della Ville Radieuse. Negli anni ’80 si assiste invece alla riscoperta dei centri urbani, e nel documento l’idea di ‘città compatta’ prende corpo in una politica di concentrazione dei nuovi interventi intorno al ‘cuore urbano’.

Il Programma Vinex assumeva quali punti essenziali della sua strategia:
a) le scelte localizzative dei nuovi quartieri di espansione residenziale erano direttamente connesse alle principali infrastrutture che garantiscono l'accessibilità al trasporto pubblico locale;
b) la densità massima ammissibile aveva quale limite superiore i 34,3 abitazioni/ettaro.
c) le trasformazioni urbanistiche del Programma Vinex prevedevano che almeno 1/3 delle nuove abitazion realizzate fossero destinate all'edilizia residenziale sociale.
Per quanto sub a), il risultano raggiunto è da considerarsi buono, dato che mediamente il tempo casa-lavoro è compreso in circa 25 minuti.

Per quanto b), le densità medie si sono situate su livelli più bassi di quelli previsti: 26,8 abitazioni/ha.

Per quanto sub c), invece, i risultati sono più incerti. La maggior parte delle realizzazioni consiste nella ripetizione monotona di un unico modello, alla minima densità consentita (circa 30 abitazioni, pari a 75 abitanti, per ettaro): su questa monotonia tipologica si sono concentrate le maggiori critiche. Ciononostante, secondo il sociologo Arnold Reijndorp, il livello medio di soddisfazione di chi abita nei complessi VINEX è buono: "La maggior parte degli abitanti non dimostra una reale necessità di contesti stratificati come quelli urbani e considera il sobborgo come luogo centrale. Grazie allo sviluppo della mobilità, alle localizzazioni e alla rete dei mezzi pubblici si è sviluppata una nuova forma di ‘urbanità’ a scala regionale, se non più ampia".

Per questo la maggior parte degli interventi localizzati consta di non più di 5000 unità residenziali.
Interventi più consistenti sono invece il Leidsche Rijn a Utrecht (30.000 alloggi, 700.000 mq di
uffici, 280 ha di aree industriali); Ypenburg, presso L’Aia (12.000 alloggi); Vathorst, vicino Amersfoort (11.000 alloggi, 15 ha per uffici e 45 per aree industriali); Almere, la città creata 25 anni orsono, arriva a prevedere 250.000 abitanti per il 2010, dagli attuali 160.000.

(tratto da http://www.flickr.com/photos/buteijn/177243686/)

martedì 16 dicembre 2008

longue durée

Su De Architectura leggo, con buon interesse, le sintesi a un recente convegno e questo passaggio di Franco Purini mi convince anche. Me lo appunto.

"Oggi tra gli architetti ci sono due posizioni, potremmo dire schematizzando:

a) quella di chi pensa di poter trascrivere i flussi, i dinamismi, le ibridazioni, le metamorfosi, il caos, chi per esempio estetizza il degrado che insiste nelle città e che quindi trasferisce direttamente la lettura della città che fa la sociologia, antropologia o il cinema pensando che possa diventare il territorio dell’architettura;

b) oppure quella di chi come me e come molti altri, vorrei qui ricordare Nikos Salìngaros che su questo ha reso parole molto illuminanti, che sanno che c’è uno scarto tra lettura sociologica e struttura della città. La struttura della città è inerziale, prima di tutto, e non corrisponde in tempo reale alle trasformazioni della vita, è fatta di oggetti, di cose, di strade, di case, di spazi pubblici, di elementi che sono stabili e che vanno progettati e che sono esattamente il campo in cui l’architetto non può intervenire negli assetti sociali se non attraverso l’architettura."

tratto da http://www.flickr.com/photos/mirkogarufi/2482187253/

domenica 14 dicembre 2008

la tutela del paesaggio

Mi sento colpevole di non aver subito studiato il caso di Renato Soru in Sardegna. Purtroppo avevo altre cose da fare... Però ho scoperto le politiche abitative.

L'interesse per il paesaggio, però, non mi sembra più procrastinabile. Il motivo risiede nella perdita di senso, per le popolazioni locali di uona parte d'Italia, del paesaggio agricolo e nel progressivo omologarsi verso un non meglio definito paesaggio "turistico" fatto di seconde case e lottizzazioni varie, e nell’abbandono progressivo del rapporto tra conduzione del fondo e attività edificatoria.
La pressione edificatoria tanto sulle coste quanto nelle colline interne distrugge le campagne un pò in tutt'Italia in funzione di un'idea, tutta da verificare, di modernizzazione fatta.
Il paesaggio naturale ma anche quello “artificiale” opera delle pratiche agronomiche, testimonianza avente valore di civiltà da tramandare alle generazioni future, non è più in grado di autogovernarsi diventando così un semplice territorio in attesa di trasformazioni urbanisticò-edilizie.

Il problema di fondo, sotto il profilo del governo, mi sembra essere qwuesto: la tutela del paesaggio non si “contratta”. L'armamentario tecnico e giuridico, quindi, non è quello da utilizzare per i casi di aree di riconversione urbana.
Che fare? Una soluzione è stata indicata dall'esperienza della Sardegna: il nuovo piano paesaggistico, per di più oggetto di un protocollo d’intesa con il Ministero dei beni culturali come prescrive il Codice del paesaggio.
Soluzione che, individuando nuovi beni paesaggistici di rango regionale o beni “identitari” sul territorio regionale, tra cui il paesaggio rurale, ha la possibilità e l'autorità di porre limiti precisi all'edificazione dato che questi prevalgono immediatamente, secondo la legislazione statale, sulle previsioni dei piani regolatori sottostanti.
E' nel rapporto tra regione e amministrazione centrale, lontane dagli interessi particolari, che si può giocare la partita della tutela del paesaggio rispetto ai singoli comuni.
Inizia a seguire questo percorso di ricerca. Buon lavoro a me.

sabato 13 dicembre 2008

del riorganizzare la rete scolastica

La riorganizzazione dell'edilizia scolastica è un tema che un pò mi interessa.
L'intervento tradizionale è quello di manutenere le sedi esistenti, visto il precario stato di conservazione di molti edifici scolastici. Molto pochi, per la verità, pensano alla riorganizzazione della rete scolastica che, come evidente, è opzione politica molto differente. La motivazione che viene spesa è quella che dato il flusso di risorse pubbliche esistente, di per Sè alquanto scarso, è assolutamente velleitario pensare di andare oltre la "messa in sicurezza" delle scuole. Vero. Ma il corollario che aggiungo io, allora, è perchè affidarci alla politica: forse, basta una segretaria. Ovviamente, di quelle brave.
Leggo su Lavoce.info un contributo di Massimo Bordignon e Alessandro Fontana che va un pò fuori dal coro. E, soprattutto, prova a pensare qualcosa di diverso rispetto all'estrapolazione lineare dello stato attuale verso il futuro.
La tesi è che "si potrebbe cominciare con il chiudere i plessi inefficienti. Una ragione per cui le scuole italiane sono in cattivo stato è che sono troppe, circa 42mila, di cui quasi 6mila con meno di 100 studenti. Di più, la frammentazione della rete, conducendo a classi con pochi studenti, è responsabile, secondo le nostre stime, di circa un terzo dell’eccesso di personale per studente che caratterizza il nostro paese: circa il 40 per cento in più rispetto alla media dei paesi Ocse."
Non so dire se il 40% sia vero o meno: però il senso dell'opzione politica mi sembra molto chiaro.
Bastasse scriverle le cose per ottenerle sarebbe tutto facile. Non è proprio così. E i due autori almeno ci provano. "Eliminare i plessi inefficienti consentirebbe dunque di liberare risorse importanti, che potrebbero essere reinvestite nel settore scolastico, a cominciare dall’edilizia. Ma come riuscirci?"
Vengono enucleate almeno due ipotesi di correzione dell'ordinamento esistente.
A) Impostare una più corretta gestione dei rapporti finanziari tra governi. "Oggi, se un comune chiude una scuola, paga solo dei costi, soprattutto in termini di conflitti con le famiglie, i sindacati e altre forze locali. I benefici vanno invece interamente allo Stato centrale, sotto forma di minori spese per il personale. (...) Se si vuole davvero incentivare comportamenti più coerenti tra i diversi livelli di governo, è opportuno che parte dei benefici resti a disposizione dell’ente locale stesso, per poter essere reinvestiti nel settore scolastico."
B) "Lo Stato è obbligato solo a garantire il finanziamento del livello essenziale dei servizi, non di quelli in eccesso, che sono invece responsabilità delle Regioni. Nel caso della rete scolastica non sarebbe difficile disegnare, (...) sulla base di criteri di accessibilità da parte degli utenti, una mappa efficiente della organizzazione del servizio scolastico sul territorio, individuando quali plessi mantenere e quali invece sopprimere. Se la Regione, a cui spetta la competenza sulla rete, vuole mantenere invece plessi inefficienti, se ne assume la responsabilità, finanziando il relativo servizio con le proprie risorse."

venerdì 5 dicembre 2008

il bilancio di genere non è solo un esercizio di stile

La Regione Liguria ha presentato lunedì scorso il proprio Bilancio di Genere. Per contratto ho dovuto scrivere qualche appunto. E' venuta fuori una cosa che mi sembra possa aprire una pur minima prospettiva di governo.
L’analisi del contesto ligure effettuata dal Bilancio di Genere regionale evidenzia un aspetto peculiare della struttura socioeconomica ligure.
In termini di qualità del capitale umano, cioè una delle variabili più importanti per garantire buone performance future di un sistema economico, l’universo femminile è la componente che apporta la migliore dotazione di capitale di conoscenza. Basti pensare che:
- nel 2007 il 55,7% dei neolaureati residenti in Liguria sono stati donne;
- il 21,2% delle donne occupate ha una laurea, laurea a breve o dottorato contro il 14,3% degli uomini;
- il 42,1% delle donne occupate ha un diploma superiore, contro il 39,2% degli uomini;
- le imprese femminili, pur essendo solo il 26,2% delle imprese liguri, rappresentano la quota più elevata del Nord Ovest e della media nazionale;
- il 73% dei disoccupati laureati sono donne (3.000 contro 1.000 uomini);
- tra i 15 e i 64 anni sono inattivi (non lavorano né cercano lavoro) il 41,7% delle donne (218.000) e il 24,2% degli uomini (125.000);
- le laureate inattive tra i 15 e i 64 anni sono 18.000 donne, contro 9.000 uomini.
Le potenzialità che le donne liguri possono –e debbono- ancora esprimere, se adeguatamente sostenute, sono quindi sia elevate e sia portatrici di beneficio per tutto il sistema economico della regione. Ma favorire lo sviluppo di queste potenzialità implica, necessariamente, migliorare e, ove possibile, incrementare la capacità di intervento pubblico a livello di welfare locale. In questo senso, le spese per il sociale sono da considerare non un mero costo ma un vero e proprio investimento sulle persone, sulle competenze che vivono nella nostra regione, con un reale ritorno a medio lungo termine in termini di maggiore competitività di tutta la Liguria.

E l’analisi del Bilancio di Genere della RL evidenzia che un bilancio così rigido come quello dell’Ente non permette certo di implementare delle azioni specifiche per le pari opportunità in misura tale da incidere su fenomeni di questa entità. La strada è, e sarà ancor più nel futuro, quella di qualificare al massimo secondo l’ottica di genere l’utilizzo delle risorse investite nei vari settori dell’intervento pubblico. E già qualche risultano lo si inizia a vedere.
Rilevante l’azione condotta dall’attuale Giunta in materia di politiche sociali, cioè quelle politiche pubbliche che hanno per loro stessa definizione una ricaduta di genere importante e fondamentale. Dove non arriva nelle famiglie la figura femminile, che sia la madre, la figlia, la nipote, devono arrivare necessariamente le politiche sociali pubbliche, e viceversa. E le politiche sociali sono proprio la principale fonte di sostegno alle figure femminili caregiver, in quanto idonee a concedere maggiori spazi di libertà alle donne con carichi di cura, sollevandole da un lavoro familiare che spesso inibisce scelte di crescita professionale, sociale e anche personale.
Queste politiche hanno conosciuto con l’attuale Giunta un processo di radicale riorganizzazione, individuando l’attività dei Distretti sociosanitari, vere e proprie strutture di snodo territoriale, lo strumento capace di offrire una risposta unitaria e pertinente alle diverse esigenze che emergono dai vari sistemi locali che formano l’arco ligure. Inoltre, con la lr 12/2006 di riordino delle politiche sociosanitarie, si è potuto offrire una vasta gamma di interventi nel quale emerge chiaramente l’impatto favorevole sull’utenza femminile.
Alcuni dati possono chiarire efficacemente la qualità dell’impiego delle risorse finanziarie impiegate rispetto ai bisogni di assistenza familiare che, in questo modo, vedono alleviare il carico sulle donne.
Le ASL hanno assistito 37.745 anziani, per una incidenza sul totale della popolazione anziana ligure dell’8,8%, e per un costo del servizio di 100,4 MLN€. I disabili assistiti sono invece stati 76.548 per una spesa di 119 MLN€, con un’incidenza sulla popolazione disabile elevatissima, considerando che in Liguria sono stimati in circa 86.000 e, di questi, 62.000 vivono in famiglia.
Molto importante è stato poi il contributo offerto dal Fondo nazionale per la Famiglia che ha consentito l’avvio nel 2008 del progetto “Liguria Famiglia” con uno stanziamento di quasi 16 MLN€, per sostenere:
- interventi a sostegno di famiglie con almeno quattro figli per abbattere i costi di mense e trasporto scolastici;
- il piano servizi per la prima infanzia, per finanziare nuovi nidi o la ristrutturazione e l'ampliamento di strutture già esistenti, nonché servizi integrativi come i centri bambino e i centri bambino e famiglia;
- la domiciliarità di persone non autosufficienti attraverso la messa in regola delle assistenti domiciliari;
- la qualificazione del lavoro di assistenti familiari.
Nel marzo 2008 è stato pubblicato un primo bando per un totale di 3,5 MLN€, mirato a mettere a disposizione delle famiglie 1.500 nuovi posti di asilo nido o servizi integrativi per l’infanzia. Tale iniziativa è particolarmente significativa dato che che attualmente la Liguria può contare su poco più di seimila posti nei nidi su tutto il territorio, in grado di accogliere soltanto il 18,1% dei bambini nella fascia 0-3 anni. Con tale bando la Liguria si avvia a raggiungere l'obiettivo di Lisbona fissato alla quota di 33 posti disponibili ogni cento bambini che, fino a qualche anno fa, sembrava irraggiungibile.
Altrettanto rilevante è l’azione regionale rivolta ad anziani e persone non autosufficienti, segnatamente rappresentata dal Fondo per la non autosufficienza, strumento di sostegno che assorbirà la maggior parte delle risorse destinate agli anziani e non autosufficienti per i prossimi anni. La Regione Liguria ha stanziato 43,5MLN€ in tre anni per il fondo; da quando è stato istituito, 8.388 persone hanno ottenuto il riconoscimento del contributo che, per il 74% dei casi, è finalizzato a migliorare l’organizzazione familiare interna, abbattendo i costi dell’assistenza.

Il Bilancio di Genere evidenzia però anche la prossima sfida per l’universo femminile. Sfida che attiene l’impiego delle risorse per il sostegno dello sviluppo economico regionale.
Si questo tema, l’aspetto più rilevante in materia di strategie regionali di sviluppo economico riguarda la promozione della ricerca, innovazione tecnologica e sviluppo del settore high tech. Al pari del rilancio delle attività collegate alla portualità e alla logistica per quanto attiene la specializzazione sui poli formativi. Tali scelte, di indubbia efficacia in termini aggregati, rischiano però di essere penalizzanti per l’universo femminile, dato che la partecipazione delle donne ai settori tecnologici coinvolti nell’high tech è attualmente scarsa.
A fronte della minore incidenza di donne tra i laureati nelle discipline scientifiche (in Liguria nel 2006 il 18,1% degli uomini tra i 20 e i 29 anni contro il 10,7% delle donne ) e del minore numero di donne tra i ricercatori censiti nel 2003-2004 (solo il 30,7% del totale dei ricercatori Liguri sono donne), si impongono degli interventi correttivi, in grado di affrontare positivamente il tema della segregazione orizzontale, sia negli indirizzi di studio sia di percorso lavorativo.
In questo senso, la fase attuativa del POR sarà chiamato a qualificare le spese per investimenti individuando fin d’ora due ambiti d’azione.
Per le qualifiche più alte, sarà cruciale la possibilità di sostenere il maggiore ingresso di donne nei settori strategici dell’high tech e della ricerca, investendo con misure formative di sostegno adeguate in tale senso.
Inoltre, una particolare attenzione andrà posta al lavoro di cura e di assistenza retribuito, il cui sostegno è specificatamente contemplato nel POR. Di tali attività va pienamente colto il positivo impatto di genere su più fronti, dalle maggiori possibilità lavorative per le donne, spesso immigrate, fino al favorire la conciliazione lavorativa per le donne occupate.

lo strumento del bando è una difesa dall'assunzione di responsabilità

Sulla base di un analogo studio commissionato dalla Regione Lombardia, qualche anno fa mi sono trovato a ragionare sulla forma migliore per promuovere progettualità pubblica. Ne venne fuori l'esperienza del Programma Regionale per il Social housing e degli Accordi di Programma Quadro Locali per la Casa.
Adesso, il problema si pone nelle stesse forme di allora. Non so se quello di seguito riportato sia una buona strada. Certo è che in termini di apprendimento, le organizzazione pubbliche sono un pò di "coccio".

Il periodo compreso tra la seconda metà degli anni novanta e i primi anni duemila ha rappresentato una stagione di sperimentazione intensa e dinamica per le politiche urbane e territoriali. Sono stati avviati numerosi programmi integrati di riqualificazione urbana e di sviluppo locale, soprattutto sotto l’impulso del Governo centrale, segnatamente della Dicoter.
L’impiego di formule competitive, di logiche concorsuali e di bandi quali dispositivi per l’allocazione di risorse e di finanziamenti e quali leve nella produzione di politiche pubbliche si è ampiamente diffuso.
Alla scala urbana le amministrazioni locali hanno avuto accesso a una quota consistente di risorse, sono state indotte a misurarsi con regole e procedure inedite, hanno inaugurato e (forse) consolidato relazioni con interlocutori istituzionali comunitari e nazionali, hanno progettato e avviato trasformazioni rilevanti del tessuto fisico della città, sollecitato azioni di rigenerazione sociale e valorizzazione economica.
Rilevante è stata l’influenza europea che ha coinciso con la composita filiera di programmi e iniziative che hanno finanziano interventi su materie diverse: lotta all’esclusione sociale, lavoro, sviluppo locale, riqualificazione urbana. Rilevante è l’esperienza di Urban.
Nella prospettiva di una maggior efficacia dell’azione pubblica in un quadro di riduzione delle risorse e di evoluzione del ruolo del soggetto pubblico si è cercato di interpretare il richiamo al coinvolgimento nel disegno e nell’attuazione delle politiche di una pluralità di istituzioni e attori -pubblici e privati- e alla necessità di coinvolgere le società locali e i cittadini nelle scelte che li riguardano (è soprattutto il caso dei Contratti di Quartiere).
Ancora, in linea con il principio di sussidiarietà verticale, gli approcci integrati e partecipati hanno assegnato progressiva centralità al livello locale (in senso stretto), che ha teso inevitabilmente a diventare la scala privilegiata della progettazione e dell’implementazione di un ampio insieme di misure e interventi.
Tuttavia, a distanza di alcuni anni dall’avvio e dalla sperimentazione di questi strumenti, l’impressione è che la tensione verso l’innovazione sia oggi meno evidente. Nella fase attuale, a distanza di qualche anno dalla sperimentazione di questi strumenti in relazione al tema delle politiche della casa e della città è possibile riconoscere sia elementi di successo che, ed è quello che qui interessa, motivi di criticità.

Il ricorso a procedure di bando che mettono in competizione, per l’accesso alle risorse pubbliche, le amministrazioni pubbliche locali intenzionate ad avviare progetti, pur con qualche variazione sul tema, si è articolato lungo:
- una prima fase di definizione/costruzione/stesura
- un momento di presentazione/lancio
- un tempo di stesura dei progetti entro una scadenza prefissata
- una fase di valutazione/selezione
- la comunicazione dei progetti ammessi
- l’attuazione dei programmi.
E’ entro questa prospettiva che l’insieme articolato di politiche e i programmi variamente promossi dall’Unione europea e dal governo nazionale e dal livello regionale hanno:
a) assunto uno spiccato orientamento alla forma “progetto”
b) messo a punto dispositivi di allocazione delle risorse che sono centrati su una logica di competizione aperta tra i destinatari dei finanziamenti
c) indotto l’adozione di modelli d’azione e competenze orientate al risultato.
A partire da questi temi sembra ormai matura una riflessione attorno alle questioni e ai nodi problematici che l’uso estensivo del dispositivo del bando pone.
Tra gli assunti di partenza, il riconoscimento che i dispositivi non generano (solo) quello che vogliono produrre: ovvero che c’è uno spazio d’azione molto ampio in cui le pratiche producono un’ampia gamma di effetti diretti e indiretti. In questo senso, è un’ipotesi di partenza che il potenziale e le aspettative attribuito al dispositivo dei bandi stesso abbia più a che fare con la possibilità di innescare delle dinamiche che non con la direzione delle dinamiche stesse.
Le prime valutazioni sulle pratiche, consentono di mettere in evidenza una serie di criticità e di rischi, effetti perversi e derive che la formula concorsuale può implicare, soprattutto laddove la produzione di politiche si configura attraverso una sommatoria di bandi.

La logica dell’emergenza.
Il ritmo imposto dalle scadenze e il ricorso ripetuto al bando riproducono in modo sistematico una situazione di urgenza e di emergenza. Ciò solleva una serie di interrogativi che restano aperti:
- quali sono i margini reali che i bandi offrono per lo sviluppo di qualità e di nuova progettualità? Spesso il successo dei progetti di alcune amministrazioni è legato più che alla capacità di improvvisare, o comunque di rispondere entro tempi molto brevi alle domande espresse dai bandi, alla disponibilità di giacimenti progettuali pregressi, di volta in volta piegati ai vincoli che è necessario rispettare;
- quali gli spazi effettivi per tessere e costruire integrazione orizzontale? La qualità, l’efficacia, la solidità e l’innovazione di processi e progetti attivati via bando sono strettamente correlate alla definizione di forme di partenariato tra soggetti che, a vario titolo, possono attivamente contribuire a una migliore traduzione delle politiche della casa, in una fase in cui non può più essere il solo soggetto pubblico a occuparsene.

La dimensione simbolica.
In alcuni casi, una serie di elementi lasciano intravedere una natura per lo più simbolica e quasi rituale del ricorso al bando. Vincere e avere accesso alle risorse pubbliche rese disponibili da un ministero o da una amministrazione regionale costituisce un risultato ad alta visibilità pubblica e di merito per un governo locale. Scegliere e candidare un quartiere o un altro, per la realizzazione di nuove quote di edilizia pubblica o per la riqualificazione di quella esistente, ma degradata, diventa un gesto a forte impatto comunicativo rispetto a un’opinione pubblica sempre più sensibile ai temi dell’insicurezza, dell’incertezza e dell’assenza di politiche sociali rilevanti. Ma se la logica prevalente è questa, alcuni requisiti di sistema quali la coerenza degli interventi alla scala urbana, la capacità di intercettare davvero le situazioni più critiche, potrebbero scivolare in secondo piano, con qualche rischio per il futuro.

Difficoltà a integrare.
Bisogna tuttavia mettere in conto due limiti che possono ridurre le potenzialità trasformative dello strumento progetto, che attengono alla temporalità e all’estensione. Il primo limite consiste nel carattere intrinsecamente contingente e a termine dei progetti, che se da un lato incoraggia la sperimentazione e l’orientamento all’innovazione, dall’altro rischia di non consentire le condizioni per lavorare sui tempi lungi necessari ai processi di integrazione. Per riprendere la dicotomia di Jim March (1991), il progetto valorizza l’exploration ma non incoraggia l’exploitation delle innovazioni che essa è suscettibile di produrre.

Gli esiti del meccanismo "bando" nei programmi regionali.
La ricerca condotta sui programmi regionali permette di rilevare alcune differenze tra le formulazioni possibili dei bandi. Esistono cioè, all’interno delle esperienze considerate diversi tipi di bando. La variabile di maggiore interesse è costituita dalla tempistica del bando, dal ritmo che impone ai soggetti che intendono parteciparvi, dal grado maggiore o minore di re-iterazione delle proposte. Da questo deriva un secondo elemento utile a interpretare le implicazioni dello strumento bando rispetto alla maggiore o minore opportunità di interazione e/o negoziazione tra i soggetti coinvolti (chi emette il bando e chi concorre al bando).
Potrebbe essere definito bando “una tantum” ovvero del tipo “a lancio e chiusura”. Si tratta spesso di esperienze pilota, di risorse rese disponibili in un’unica occasione. È il caso dei contratti di quartiere. Sebbene l’esperienza sia stata replicata una seconda volta, i contratti di quartiere possono considerarsi un buon esempio di questo tipo di bandi. La domanda posta è complessa, ha l’ambizione di coniugare requisiti di carattere diverso in una logica di integrazione, scommette su dimensioni di carattere sperimentale: l’appello al carattere partecipato dei progetti, il partenariato tra soggetti e risorse miste, pubblico-private, la proposta di progetti capaci di intervenire in modo congiunto su criticità fisiche, sociali ed economiche dell’area obiettivo. Si tratta in sostanza di bandi che invitano all’innovazione. È prevista una dead line, successivamente non ci sono deroghe, né proroghe. Il margine di interazione tra banditore e partecipante può essere maggiore o minore a seconda dei casi, ma si gioca in genere nella fase di elaborazione del progetto, prima della data di scadenza del bando. Per incentivare il più possibile la sperimentazione di quei principi che si ritengono innovativi, il bando prevede un sistema articolato di attribuzione di punteggi per la valutazione. Si potrebbe dire che, fino ad ora, in Italia, questo tipo di bando è quello che ha sollecitato forme più interessanti e più dinamiche di competizione.
Questo tipo di bando è più centrato sulla definizione di requisiti di ingresso e sulla capacità di attivazione dei destinatari in situazioni di contingenza e in corrispondenza di maglie sufficientemente strette e comunque definite dalla Regione. In progressione, l’apertura più o meno esplicita del bando e della formula concorsuale a interazioni e a processi di negoziazione apre ad una progettualità che si muove piuttosto lungo le traiettorie di una valutazione più discrezionale ovvero a una verifica più sensibile agli elementi di prospettiva e di contesto delle proposte.
In questo senso, il programma Contratti di Quartiere II ha costituito un elemento di discontinuità significativo. Mentre nella formulazione dei Contratti di Quartiere I (al pari dell’esperienza dei Pru), la promozione, la valutazione e la regia dell’attuazione dei programmi erano interamente affidati al Ministero e dunque la relazione tra amministrazioni in gara e il soggetto erogatore era una relazione che si giocava “a distanza”, la seconda generazione di Contratti di Quartiere ha visto una forte riduzione delle distanze e una maggior intensità di interazioni. Tra gli esiti della gestione diretta del programma da parte di Regione vi è indubbiamente una assunzione di responsabilità e di attenzione maggiore da parte del soggetto erogatore rispetto alle formulazioni dei contenuti (che sono stati spesso oggetto di verifiche e di aggiustamenti in corso di elaborazione delle proposte).
La seconda generazione dei contratti ha visto una maggiore partecipazione delle amministrazioni regionali che hanno svolto e svolgono un ruolo rilevante sia nella definizione dei bandi, che presentano infatti differenze sensibili da un contesto regionale all’altro, sia nella valutazione dei progetti. La prima fase di selezione avviene a cura delle amministrazioni regionali che, in alcuni casi propongono e definiscono congiuntamente alle amministrazioni comunali in gara modifiche e riformulazioni dei programmi candidati ai finanziamenti. La seconda fase di selezione vede invece la partecipazione del livello di governo centrale. Questo modello di governance che coinvolge tre livelli di governo, ma in cui di fatto svolgono un ruolo determinante le amministrazioni comunali e quelle regionali, configura forme di sussidiarietà in parte diverse da quelle sperimentate nel corso della prima generazione di Contratti di quartiere. L’ipotesi è che l’autonomia locale nelle esperienze più recenti sia indebolita in relazione al ruolo di mediazione tra realtà locali ed ente erogatore che la regione ha progressivamente assunto. L’esito potrebbe consistere in un meccanismo di selezione meno concorsuale e più negoziato e un controllo del processo molto più vicino alle tradizionali logiche di spesa.
Il tema dell’integrazione è trattato diversamente rispetto al programma Urban. Anzitutto la dimensione di investimento più rilevante riguarda gli interventi sul patrimonio dell’edilizia residenziale pubblica. È questo infatti l’obiettivo prioritario dei contratti di quartiere. La combinazione di azioni di natura diversa, capaci di agire oltre che sulla dimensione fisica, su quella sociale ed economica dei contesti di intervento, è intesa più come creazione di condizioni per l’integrazione futura di politiche che come costruzione preliminare di politiche già intrecciate.

Il soggetto regionale in questo senso è alla ricerca di formule organizzative che consentano una maggior presa e aderenza dei programmi e delle forme del finanziamento regionale ai diversi contesti locali (urbani ma anche politici e amministrativi) e va sperimentando un ruolo che si configura come di regia complessiva, laddove la sussidiarietà affida la definizione delle strategie e dei programmi d’azione ai livelli locali e Regione svolge rispetto alle amministrazioni comunali e/o ai soggetti destinatari delle politiche un ruolo che inizialmente è di informazione, attivazione e coinvolgimento e poi di accompagnamento e negoziazione nel disegno di una prospettiva di articolazione dei programmi d’azione. Certamente questo tipo di orientamento rappresenta il superamento di una visione centrata unicamente sulla definizione di requisiti/criteri, sulla indicazione di una scadenza/sbarramento a ridosso della quale operare valutazioni e selezioni che risultano fortemente condizionate da una contingenza composta di specifiche variabili politico amministrative.

Problemi e innovazioni "in potenza".
I programmi regionali considerati, pur presentando una forte centratura sulle amministrazioni locali, sottolineano tuttavia l’opportunità della stipula di accordi, convenzionamenti, concessioni, coinvolgimenti in forme varie di soggetti differenti.
Questo elemento attesta una presa di coscienza della necessità di integrare, valorizzare, intercettare risorse locali il più possibile diffuse per fare fronte alla questione abitativa, che viene definita in primo luogo come annosa questione di deficit di patrimonio edilizio pubblico da mettere a disposizione di una crescente domanda abitativa. La retorica che accompagna i bandi è protesa ad evidenziare la possibilità di una apertura ad una pluralità di soggetti pubblici e privati.
Tuttavia, un’analisi dell’attenzione e delle risposte che i bandi hanno avuto da parte di soggetti diversi dall’ente pubblico locale mette in luce una diffusa difficoltà al coinvolgimento di soggetti terzi; se qualche programma specifico, ad esempio il POR - Programma Nazionale 20 mila abitazioni in affitto, ha visto una consistente partecipazione delle cooperative, tuttavia nella pluralità dei bandi si nota una certa assenza sia del mondo cooperativo, che in maniera ancora più rilevante, dei soggetti privati e imprenditoriali.

Le sperimentazioni suscitate dalla formula dei bandi pubblici promossi intorno al tema abitativo hanno dato vita a nuovi ambiti di sperimentazione che meritano di essere meglio osservati e colti nella loro portata innovativa. Certamente, il trasferimento di competenze alle Regioni nel campo delle politiche abitative e più in generale una nuova centralità degli enti locali ha avviato processi di individuazione di nuovi luoghi entro i quali progettare e sperimentare politiche abitative, dando origine in taluni casi ad una riorganizzazione delle competenze e dei ruoli.
L’introduzione di nuovi strumenti, primo tra i quali l’erogazione di finanziamenti specifici via bandi pubblici, ha attivato risorse progettuali e stimolato nuove capacità progettuali.
D’altra parte, il quadro dei finanziamenti e delle politiche per la casa oggi sembra richiedere un maggior e più vario numero di interlocutori interessati e capaci di impegnarsi nei programmi di edilizia residenziale sociale. Alcuni segnali interessanti si possono rilevare, ma è solo un inizio. Sono emersi nuovi profili di attori a vario titolo impegnati nel campo delle politiche per la casa che hanno saputo intrecciare competenze peculiari con le nuove opportunità offerte dalle politiche (come nel caso della partecipazione, limitata ma significativa, ai bandi di cooperative, imprese, fondazioni) o suggerire percorsi significativi all’ente pubblico a partire da esperienze di lungo periodo maturate in autonomia.
Ancora, i programmi urbani complessi e i Contratti di Quartiere, in particolare, mettono in evidenza la necessità di sviluppare e rafforzare un approccio integrato alle questioni abitative. A fronte di un impianto organizzativo che vede il prevalere su queste materie dei settori strettamente tecnici (Urbanistica e Lavori Pubblici) è auspicato lo sviluppo di competenze e soluzioni organizzative in grado di considerare in misura ampia lo spettro di azioni che – dalla progettazione alla gestione – consentono di dare consistenza a politiche dell’abitare innovative.
In questa direzione, una delle funzioni delle azioni di accompagnamento svolte da Regione Lombardia consiste proprio nel supportare le amministrazioni comunali anche nella costruzione di relazioni e di interazioni e cooperazione tra diversi settori implicati nella costruzione dei programmi.

La percezione ricorrente suscitata dall’osservazione dei progetti presentati in occasione dei bandi è, infatti, la loro occasionalità ed il loro carattere estemporaneo e contingente.
Come collocare interventi limitati e settoriali all’interno di una politica abitativa di più ampio respiro, come fare in modo che gli interventi non restino isolati ed episodici ma siano momenti distinti di una strategia unitaria?
La recente definizione degli Accordi di Programma Quadro per la Casa sembra alludere proprio a questa direzione di lavoro: la necessità di svincolare l’azione amministrativa dalle scadenze rigide dei bandi pubblici, da un lato, prevedendo percorsi differenti e “accompagnati” per le singole amministrazioni locali, dall’altro.
Questa direzione di lavoro, se correttamente interpretata, potrebbe indurre gli enti locali a dotarsi di strategie, percorsi, strutture amministrative in parte dedicate al tema, utili a prefigurare percorsi a medio termine.

Alcune conclusioni.
La ricognizione condotta intorno ai bandi regionali ha messo in evidenza almeno tre questioni significative.
Indubbiamente, un primo elemento di interesse messo ben in evidenza dalle politiche regionali degli ultimi anni è la ormai acquisita necessità di mettere in moto meccanismi di accordo. La modalità dell’accordo variamente declinato suggerisce la necessità che intorno al tema abitativo siano portate a collaborare risorse ed energie molto diverse, competenze pubbliche, risorse private, capacità elaborate dal terzo settore, relazioni tra attori diversi. Naturalmente, non si tratta solo di affinare la capacità di accordi sempre meglio definiti, ma di attivare concretamente risorse e competenze differenti, suscitando interessi intorno alla posta in gioco e creando le condizioni favorevoli affinché soggetti sempre diversi entrino nel gioco. Al momento, come richiamato, i bandi hanno dimostrato una certa debolezza nell’allargare gli attori interessati ad entrare in un gioco cooperativo, soprattutto con riferimento ai privati, al mondo delle imprese e in parte anche al mondo cooperativo (fatta eccezione per alcuni programmi particolarmente favorevoli al mondo cooperativo).

Un secondo elemento riguarda la necessità di una più attenta sensibilità all’integrazione tra le azioni, che può essere interpretata come maggiore attenzione alla relazione tra programmi differenti, tra azioni nel campo abitativo rivolte ad una utenza diversa, ma anche come attenzione ad alcuni campi di sovrapposizione dei quali è ormai impossibile non tenere conto. L’esempio più evidente riguarda il legame stretto tra politiche abitative e politiche sociali, tra politiche per l’integrazione sociale e disagio abitativo. In questo ambito si intravedono peraltro gli spazi per azioni che siano più incisive nel promuovere il raccordo tra la dimensione progettuale di nuovi interventi residenziali o di riqualificazione del patrimonio esistente e la dimensione gestionale. In particolare, la dimensione gestionale è da intendersi come estesa a comprendere anche il sistema e il processo di assegnazione degli alloggi che primo tra tutti rappresenta un passaggio in cui la relazione con le politiche (e i servizi) sociali del governo locale può dare consistenza ad un sistema di welfare municipale sensibile alla dimensione territoriale dei problemi e delle risorse.

La panoramica offerta dai vari programmi regionali, infine, suggerisce l’utilità di attivare un mix di strumenti: che accanto alla modalità per bandi si affianchino altre modalità (a sportello, di programmazione, su candidatura) in grado di consentire continuità e coerenza alle politiche abitative.