domenica 8 febbraio 2015

Tra forma e sostanza: ci sono più di 30mila ettari agricoli che non sappiamo come vengano utilizzati

Proseguendo il ragionamento aperto in un precedente post sullo stato del governo dei territori periurbani e realtà delle cose, è utile soffermarci su un altro paio di numerini. Il seminario di venerdì prossimo con il prof. Guido Sali sarà un primo momento per capirci qualcosa di più.

Nel 2007, la SAU ligure arriva a 49.080 ha, il minimo storico. Ma l'analisi satellitare degli usi del suolo evidenzia una quantità di aree riconducibili a quelle agricole quasi doppia: 79.657,91 ha. Queste ultime sono aree non edificate, non caratterizzate da boschi o pascoli, molto probabilmente di buon livello agronomico. Ma estranee alle realtà aziendali.
In qualche caso, è lecito attendersi che tali aree siano coltivate in forma amatoriale dai cosiddetti hobby farmers, cioè persone che dedicano all'attività agricola anche meno di 10 ore/settimana. Ad esempio, un hobby farmer impegnato in olivicoltura, non credo possa andare oltre un impegno di 3.000 mq. Ma ci troviamo di fronte a estensioni di suolo notevoli. A forza di hobby farmers, per spiegare completamente la differenza tra suolo agricolo fotointerpretato e SAU censita dall'ISTAT ci vorrebbero più di 100mila persone estranee alle aziende agricole che nel tempo libero coltivano. Mi sembra francamente un po' troppo.

E allora questi 30mila ha in più cosa sono? Sono anche, se non soprattutto, il portato della disciplina dei "Territori di presidio ambientale" ai sensi dell'art.36 della lr 36/97 e s.m.i. e di tutta la disciplina delle cosiddette "zone agricole" che prescinde dall'uso effettivo della terra a scopi aziendali. Cioè di quella novità introdotta dalla LUR ligure che separa l'operatività urbanistico-edilizia nello spazio rurale dalla presenza effettiva di aziende agricole, in cambio del "presidio" operato anche da altri soggetti sulla base di convenzionamenti con i vari Comuni.
L'atto convenzionale potrà soddisfare, sotto il profilo formale, l'architettura giuridica. Ma sotto il profilo sostanziale, ho la netta impressione che produca superfici potenzialmente produttive destinate all'abbandono.
E abbandonare la terra, oltre ai gravissimi problemi di instabilità dei bacini idraulici, porta ad aggravare localmente una situazione che già oggi è di perdita della sicurezza alimentare, dato che l'Italia solo per circa l'80% è autosufficiente sotto il profilo alimentare.

Sul passato c'è poco da recriminare. Al più, serve per cambiare rotta imparando dall'esperienza. Mi par di capire, però, che la revisione della LUR in discussione si fondi, da un lato, sulla notevole fiducia nello strumento della convenzione, e dall'altro, si fondi sul blocco dell'operatività nello spazio rurale via "stop al consumo di suolo".
La risposta possibile, a una situazione di decremento così sensibile della superficie coltivata, ha bisogno di un'impostazione fondata non tanto sulla forma (l'obbligo convenzionale), quanto sulla sostanza. Cioè sull'effettivo uso in senso economico della terra. Da qui l'interesse per le questioni microeconomiche del seminario "Potenzialità economiche e gestionali delle aree agricole multifunzionali di frangia".
Molto più pertinente, ad esempio, può essere lo strumento della Banca della Terra introdotto dall'art.6 della lr 4/2014 che punta proprio a reimmettere nel ciclo produttivo i suoli che attualmente ne sono estranei.

sabato 31 gennaio 2015

L'agricoltura multifunzionale: alcune ragioni per un seminario

Il 13 febbraio a Bordighera si terrà un seminario sul tema della multifunzionalità nelle aree agricole con la partecipazione del prof. Guido Sali dell'Università di Milano. Quali sono alcune delle ragioni che hanno condotto a organizzare l'evento formativo?

Le città costiere liguri, negli ultimi vent’anni, hanno molto allargato i loro margini fino a interessare vaste porzioni di territorio periurbano, dando origine a tessuti estensivi caratterizzati da sommarietà delle urbanizzazioni, precarietà dei valori di immagine e attività agricole tendenzialmente in abbandono (ad es. le serre). In molte parti della fascia periurbana del continuum urbanizzato costiero, segnatamente laddove vigeva il regime paesistico del PTCP di Insediamento Sparso in regime di Mantenimento (IS-MA), non è raro registrare insediamenti con densità territoriale addirittura pari a 0,10 mc/mq che sono l’esito di un lungo processo di erosione incrementale delle zone agricole dei piani urbanistici.
Questi spazi tra la città e la campagna più profonda sono spesso spazi senza qualità perché sono portatori di una doppia forma di marginalità, prodotta da un lato dai processi di degrado delle periferie urbane senza spazi aperti pubblici e aree verdi, in attesa di processi di valorizzazione immobiliare, e dall’altra, dalla campagna periurbana che viene abbandonata, senza qualcuno che la coltivi o la curi.
Rispetto a queste parti del territorio, il compito della pianificazione di ogni livello dovrebbe essere quello di porsi il problema della loro rigenerazione, secondo un patto che possa coniugare le funzioni urbane che comunque vi si svolgono con l’identità agricola che permane.

In questa parte di Liguria si fronteggiano diversi scenari interpretativi e conseguentemente progettuali. Il primo dei quali è quello degli ultimi vent’anni, che vede la città espandersi e la campagna occupata dalle nuove parti urbane, più o meno rade.
Il secondo scenario è quello assunto dallo schema di Piano Territoriale Regionale (PTR), impostato sulla definizione di un bordo urbano: da una parte la città e dall’altra parte la campagna. In questo scenario, lo spazio agricolo è sostanzialmente indifferente alla città e la città lo è altrettanto rispetto allo spazio agricolo.
Il progetto di piano del PTR, ormai arrivato alle soglie dell’approvazione -ma ad oggi non ancora approvato e, probabilmente, neppure al termine della legislatura in corso- è chiaramente un progetto in negativo, nel senso che con la classificazione in “Liguria Agricola” o con i “Balconi Costieri” e la “Campagna Abitata” persegue l’obiettivo di porgere un robusto freno al consumo di suolo.

Lo schema di PTR dice di sé (qui): in periodo di crisi, in che modo un piano può dare una mano? In primo luogo, quando riesce a sintonizzare le proprie parole con il Paese.
E la realtà ligure cosa dice? Dice che la Superficie Agraria Utilizzata (SAU) era 92.482,67 ha nel 1990, per poi passare a 62.605,33 ha nel 2000 e finire con soli 49.080,00 ha nel 2007. In altri termini, l’estensione della SAU negli ultimi vent’anni è crollata, arrivando a coprire circa il 9,2% della superficie territoriale dell’intera Liguria. Il 9,2% è il tasso di copertura agricolo più basso d’Italia.
Anche se l’analisi passa dal dato statistico a quello della rilevazione cartografica, le informazioni continuano a essere fonti di preoccupazione: l’estensione del suolo classificabile come agricolo è 79.657,91 ha, quasi il doppio della SAU. Cioè, esistono più di 30.000 ha di suolo agricolo in stato di abbandono.

A fronte di questa lettura, è del tutto evidente che la mera imposizione vincolistica e la sola riduzione degli indici edificatori possono poco; soprattutto, molto difficilmente possono invertire una tendenza strutturale alla riduzione della superficie aziendale coltivata in Liguria.

Ciò che è stato assente nel dibattito pubblico, almeno fino ad oggi, è una reale valutazione delle possibilità di generare un reddito adeguato da parte delle attività agricole multifunzionali e, al contempo, di remunerare i capitali investiti. In altri termini, se per i proprietari fondiari per un lungo periodo di tempo è stato più conveniente “coltivare case”, oggi quali possono essere le convenienze attivabili per far sì che il “coltivare case” possa essere sostituito? 










E quindi, quale possibilità può avere il considerare il soggetto che opere nel territorio agricolo come un operatore multifunzionale che, oltre a coltivare i campi in modo tradizionale, possa abbinare a ciò: l'agriturismo; l'agricoltura sociale; la vendita diretta; la trasformazione o manipolazione di prodotti agricoli aziendali; la produzione di energia;  il contoterzismo; le attività funzionali alla sistemazione e alla manutenzione del territorio, alla salvaguardia del paesaggio agrario e forestale, alla cura e al mantenimento dell'assetto idrogeologico; la trasformazione di prodotti agricoli per conto di terzi.










domenica 14 luglio 2013

Città, memoria collettiva e catastrofe

Qualche giorno fa, nell'ambito di una rassegna estiva, c'è stata la presentazione dell'esperienza di realizzazione del Giardino della pace e della speranza a Kabul. Ho scritto questi appunti sul più generale rapporto tra città, memoria collettiva e catastrofe.


L’incontro con i coniugi Laura Eastman e Donald Malcolm e la loro esperienza a Kabul nel post-conflitto afgano sollecita, tra le varie cose, anche una riflessione sull’intervento umanitario dopo gli eventi catastrofici, siano questi bellici o naturali (terremoti, tsunami,…). Riflessione utile ad andare oltre gli stereotipi della narrazione della pace e dei pacifisti, a superare lo “spettacolo del dolore” che ha finito per portare le fotografie del bambino con la mosca alla bocca sui banner pubblicitari dei siti internet.

Tra i vari temi su cui siamo sollecitati dal racconto della realizzazione del Giardino della Pace e della Speranza di Kabul c’è anche quello riferito alla memoria -in particolare la memoria del trauma- al suo rapporto con il conflitto e con il lungo processo post-conflitto, che spesso, come nel caso afgano, viene a essere interessato anche dall’intervento degli eserciti internazionali.
Normalmente l’idea di trauma, elaborata da Freud dopo la Prima Guerra mondiale, è di tipo psicologico –se non psichiatrico-  e comunque individuale. Con il racconto di Malcolm e Eastman, invece, cerchiamo di indagare la dimensione collettiva del trauma e la sua rappresentazione pubblica che, nei casi più evidenti, dà luogo ai monumenti e alla costruzione di spazi specificatamente dedicata alla memoria. Ma in quelli meno evidenti, le altre forme di rappresentazione collettiva della città colpita da un evento traumatico restano prevalentemente sottotraccia, finendo per generare fenomeni che vanno dal risentimento alla rimozione.

Il rapporto tra spazi o architettura della città e memoria, soprattutto nel caso di eventi catastrofici, è infatti molto più complesso rispetto all’ordinario: solo poche volte, infatti, si esaurisce nella forma del Memoriale, cioè del monumento celebrativo. Ma molto più spesso, tale rapporto interagisce direttamente con i luoghi che hanno subito eventi traumatici e che diventano simboli essi stessi dell’evento: siano ad esempio il campo verde appena fuori la città, le macerie causate da un bombardamento, un terrain vague o vecchi palazzi fatiscenti. E l’esigenza di ricordare, ma anche la volontà di riscatto e di ritorno alla vita quotidiana, rendono molto difficile, se non quasi impossibile, l’intervento di ricostruzione fisica degli spazi.

Ripercorrendo la storia di città disastrate dalla guerra -come ad esempio Beirut, Berlino, Sarajevo-, si è ormai compreso quanta e quale sia la rilevanza simbolica delle strutture urbane nel vissuto quotidiano dei suoi abitanti e, soprattutto, quanto essa possa essere stata arricchita o mutilata dalla guerra stessa. Che, in estrema sintesi, finisce per essere un elemento che ingrandisce moltissimo l’esigenza di identificazione negli spazi urbani e, nello stesso tempo, un potentissimo strumento che incita alla completa rimozione di tutti gli elementi fisici che ricordano il trauma.


Flickr by Matthew

Per capire questa divergenza di esigenze, occorre pensare alla popolazione residente non come a un corpo sociale omogeneo. Ci sono, infatti, quelli che non hanno mai abbandonato la città anche durante la guerra; ma ci sono anche i nuovi insediati, cioè chi arriva ad abitare le città solo dopo l’evento traumatico; infine, ci sono quelli che ritornano in città dopo la guerra, dopo essere scappati. Tra tutte queste “popolazioni” la percezione della città è profondamente differente: il rischio è che l’una non capisca l’altra.
Per i vecchi abitanti è prioritario salvaguardare i valori identitari che la città rappresenta e in cui essi si riconoscono; per i nuovi abitanti, invece, le sfide percepite sono quelle di ogni tipica realtà urbana, come se l’evento drammatico non fosse mai avvenuto: economia, verde urbano, traffico, collegamenti pubblici,…

A fronte di un punto di partenza così frammentato e complesso, la ricostruzione di una città colpita da un evento catastrofico è caratterizzata dall’emergenza, dato che deve subito rispondere alla necessità della sua ricostruzione fisica, al fine di restituire un luogo dove vivere agli abitanti. Non c’è posto per altre strategie di medio-lungo termine. Il rischio è quindi quello di procedere senza avere una precisa idea di città: si continua a procedere per parti, componenti un puzzle di progetti che, alla fine, con difficoltà possono dialogare tra loro. In definitiva, il risultato è una pluralità di città contenute in un’unica città, diversificate in relazione all’immaginario di partenza, ai riferimenti culturali e alla storia dei singoli gruppi di abitanti rispetto alla guerra.


La grande scommessa degli interventi umanitari post conflitto è quindi far sì che una città possa impiegare energie e creatività per trasmettere ai nuovi abitanti i valori identitari che sono stati strenuamente difesi anche durante il periodo bellico, rinnovando in questo modo una memoria che ha rischiato di essere perduta per sempre durante la catastrofe.


Flickr by Jake Richter

giovedì 29 novembre 2012

consumo di suolo: qualche dato oltre i luoghi comuni


Qualche giorno fa, Giuseppe che deve partecipare a una tavola rotonda mi chiede cosa ne penso del consumo di suolo. Questione assai insidiosa, anche perché ha una certa visibilità mediatica. La prima cosa che penso è provare a tastare qualche luogo comune, molto forte mediaticamente. Anche a costo di dover passare per chi difende il "partito del cemento". Preferisco così, piuttosto che cedere il mio mestiere a chi "urla di più". Vediamo.

Una delle ragioni che molti portano per sostenere la propria tesi contro il consumo di territorio è impostata sull'inutilità della produzione edilizia dell'ultimo ciclo immobiliare. Probabilmente è vero, verrebbe da pensare. Nel frattempo, però, escono i primi dati dell'ISTAT relativi al Censimento della Popolazione e delle Abitazioni del 2011.

In Liguria, nell'ultimo decennio tra il 2011 e il 2002, il numero degli alloggi sul territorio regionale arriva a 1.003.904, con un incremento di 12.875 unità. Nello stesso periodo, la popolazione residente aumenta anch'essa, seppur di poco: 46.784. Difficile pensare che siano tutti residenti fittizi, resi tali dalla volontà di ridurre l'imposizione sulla casa in sede di acquisto.
E le famiglie? Queste arrivano a essere 832.012, con un aumento in valore assoluto di ben 121.143. E' l'effetto della trasformazione profonda delle dinamiche familiari: i single, le separazioni,... Vuoi vedere allora che una certa correlazione tra domanda e offerta di produzione edilizia, forse, esiste? O, comunque, che la situazione è molto meno lineare e chiara di come viene rappresentata, con un taglio giornalistico, da molti interventi. E che, allora, sarebbe il caso di distinguere un po' allorché si parla di offerta immobiliare: tra edilizia destinata a soddisfare fabbisogni abitativi primari ed edilizia che non ha rapporti con questi; tra offerta immobiliare in localizzazioni compatibili con una residenza e offerta che poco si presta a una residenza continuativa nel tempo perché distante dai servizi essenziali. 

Un'altra ragione che viene portata per condannare il consumo di suolo attiene la perdita di suolo agricolo. Anche in questo caso vien da pensare che sia una ragione di buon senso. 
In effetti, pur nella difficoltà della misurazione del fenomeno, sulla base di qualche numero dell'Audizione del Presidente dell'ISTAT e del dossier di FAI-WWF si arriva a stimare che l'incremento di aree urbanizzate nel decennio 2000-2010 in Liguria è stato di circa 9.918 ha, arrivando ad avere circa il 10% del territorio regionale artificializzato. Tantissimo, soprattutto in un territorio così delicato. Ecco che, però, uno sguardo al Censimento dell'Agricoltura dell'ISTAT, forse, ci fa vedere fenomeni quantitativamente ancor più rilevanti. Nel 2010, infatti, la superficie aziendale totale arriva a essere 100.098 ha mentre quella effettivamente utilizzata (la SAU) è stimata in 44.869 ha. Dieci anni prima era 62.605 ha: quindi si sono persi 17.736 ha di SAU e ben 78.912 ha di superficie aziendale complessiva. 
Di fronte a questo crollo, è del tutto evidente che l'urbanizzazione non spiega tutto. Al più spiega la metà del fenomeno.E che ulteriori gravi processi investono il territorio ligure, magari con meno appeal mediatico rispetto al "cemento" ma non meno rilevanti sotto il profilo degli effetti sul medio-lungo periodo.

Morale della favola: la Liguria, data la sua conformazione non si può certo permettere un'offerta immobiliare che ecceda la domanda. E, in molte parti, si è andati oltre il limite. Al contempo, però, le decisioni è meglio che siano fondate su qualcosa di solido piuttosto che su qualche campagna mediatica. E, in ogni caso, soffocare qualunque tipo di nuova offerta insediativa, anche quella che non determina nuovo sprawl suburbano, rischia di non essere troppo logica anche sotto il profilo della correlazione con la domanda. 

lunedì 15 ottobre 2012

energia per agenti immobiliari

Questo è il link al materiale della conversazione di oggi presso il Centro Pastore: https://docs.google.com/open?id=0B79jE8SCdbV3WGx5dVh4YjdCRkE (da copiare e incollare).

venerdì 29 giugno 2012

L'occasione del Piano Città

Mi fa piacere ritornare dopo un po' di tempo a scrivere qualcosa citando questo stralcio da un ragionamento di Giovanni Caudo riferito al Piano per le Città che ho appena letto. 
"Il decreto riafferma la potestà del governo centrale a formulare iniziative rivolte alle Città, alla rigenerazione della città costruita. Mi pare un punto da non sottovalutare e sul quale pretendere che si vada avanti in modo serio, non frettoloso o perché sospinti dalla sollecitazione mediatica. 
Rivendichiamo la possibilità che ci sia un’attenzione nazionale sulle città. In Italia da decenni non ci sono più politiche urbane e, invece, le città costituiscono una carta da giocare per uscire dal declino. Le politiche urbane degli anni Novanta (ricordate i vari Pru, Prustt, ecc…) sono ormai finite in una sorta di vicolo cieco, lasciate alle capacità dei singoli comuni. 
Il secolo nuovo, nei suoi primi dieci anni, ha portato una “mistificazione” della questione urbana. Le politiche della sicurezza da una parte e il dibattito sul federalismo municipale, dall’altro, hanno dominato il discorso pubblico e hanno evitato che si affrontassero le questioni urbane entro a un quadro di respiro strategico che ne evidenziasse l’interesse nazionale dinanzi ai cambiamenti che le città hanno registrato nel ventennio a cavallo tra il secolo vecchio e il nuovo. Le città hanno subito cambiamenti profondi, per alcuni versi radicali."
È proprio così. La leva delle città andrebbe meglio sfruttata per superare il declino. Per il come, ci saranno altri post. Per il momento, mi accontento di sentire qualcuno che evita la solita polemica sui metri cubi in variante o roba del genere.

domenica 17 giugno 2012

corso agenti immobiliari 2012

Ho inserito il modulo 6 del corso relativo alla certificazione energetica e al risparmio energetico. Il link è questo (da copiare e incollare): https://docs.google.com/open?id=0B79jE8SCdbV3SjduTm9QWENRaUU

martedì 22 maggio 2012

corso agenti immobiliari 2012

Il materiale del corso per agenti immobiliari anno 2012 è scaricabile qui (copia e incolla): https://docs.google.com/open?id=0B79jE8SCdbV3Njk1YmY5NjgtOGI0ZS00ZWQ0LWE1MDAtNDk4NjgwNzdmZTg2

giovedì 5 aprile 2012

la casa al Ruffini

Il materiale didattico riferito alla lezione sulla "casa come un servizio" per l'Istituto Tecnico Commerciale e per Geometri G. Ruffini è disponibile al seguente link (da copiare e incollare): https://docs.google.com/open?id=0B79jE8SCdbV3NlI1b3RrQ0NUcG1yQ1htR3hDSzhMZw

sabato 31 marzo 2012

energia rinnovabile al Colombo

Il materiale didattico riferito alla lezione sui rapporti tra progettazione e produzione di energia da fonti rinnovabili per l'Istituto Scolastico Colombo di Sanremo è disponibile al seguente link (da copiare e incollare): https://docs.google.com/open?id=0B79jE8SCdbV3Mllmak95d2tTVUtzcTJYZWF6SW96UQ

sabato 14 gennaio 2012

valori estetici per il progetto (del paesaggio)

Il post di Roby che mi ha già dato modo di ragionare sulle modalità di trattare il paesaggio dell'olivicoltura tradizionale suggerisce molto di più. A partire dal necessario aggiornamento del concetto di Paesaggio. Lo era già al momento della Conferenza nazionale: e il Ministro dell'epoca era la Melandri. Lo è ancor oggi, dato che Roby lamenta ancora la forte presenza dello "spirito contemplativo" in chi si occupa (o si dovrebbe occupare) del paesaggio contemporaneo.
Pur volendo accettare -a soli scopi speculativi, perché già qui dico che non sono molto in accordo- che il paesaggio vada interpretato quale "bellezza naturale", mi sembra che anche da questo ristretto punto di vista qualcosa vada aggiornato. E sì, perché quella concezione del paesaggio trova il suo sottostante nella disciplina pittorica del genere paesaggistico che si va consolidando quale soggetto autonomo nel '600. 

E oggi siamo ancora lì? Il modello di cultura presenta nel giudizio critico che si dà oggi del paesaggio in senso estetico è ancora quello? E dato che Roby nel suo post inserisce quale apparto iconografico l'uliveto di Van Gogh, provo a seguirlo... andando un po' oltre.

Quali possono essere oggi i valori estetici, da affiancare a quelli consolidati che sono ormai diventati degli stereotipi, che possono esserci utili per guardare meglio alcuni pezzi della città contemporanea? Segnatamente quella diffusa, caratterizzata dall'ibridazione tra caratteri urbani e agricoli, dalla giustapposizione di materiali urbani diversi, dall'incongruo dovuto alla mescolanza di un po' di tutto. Cioè tutte quelle parti urbane, e sono proprio tante, che senza qualche modello rinnovato con cui guardare, ci possono apparire soltanto da rifiutare integralmente. E da questo atteggiamento nostalgico e di recriminazione ne consegue l'impossibilità produrre atteggiamenti progettuali idonei a guidare quella vasta parte della città contemporanea verso assetti più maturi. 

A me sembra che qualcosa da dire lo possano avere quei valori figurativi che hanno fatto dell'iconoclastia e della violenza figurativa il terreno di innovazione rispetto ai valori sedimentati dalla cultura preindustriale. Mi riferisco a Schwitters o Rauschemberg. Ma anche a Burri o Prampolini. E non vado oltre perché in materia sono ancor più dilettante che nel resto.





In sintesi: si può pensare a un progetto del paesaggio contemporaneo (anche in funzione della sua conservazione) non con la sua imbalsamazione. Anche perché il paesaggio ridotto a oggetto di contemplazione, e che quindi prescinde dalle forze economico-politiche che lo percorrono, si espone alla debolezza dei soli strumenti vincolistici.

giovedì 12 gennaio 2012

della conservazione del paesaggio olivicolo

Roby (qui), a partire da un’intervista a Pietro Porcinai, riporta questo passaggio"La terra modificata dall'uomo con il lavoro dei campi deve essere tutelata come bellezza naturale." che diventa il pretesto per rimanene un po' incredulo di fronte alla cultura sottostante alla tutela delle Bellezze Naturali che, ancor oggi, si fonda largamente sullo spirito contemplativo.


Prima riflessione. Roby ha ragione: il paesaggio non è qualcosa di immutabile, è il frutto dell’economia di ogni epoca. Anzi si può dire che la “tradizione” altro non è se non un’innovazione che ha avuto successo nel passato. E, per il paesaggio ligure dello spazio rurale e/o perturbano, la sfida è quella della salvaguardia del paesaggio dell'olivicoltura tradizionale. Perché fino a oggi, invece che coltivare olivi, era più conveniente “coltivare case”.

Seconda riflessione. Cosa vuol dire quindi conservare quel paesaggio? Si può davvero pensare che degli imprenditori (perché gli agricoltori, alla fin fine, sono proprio quella roba lì) diventino niente più che custodi mal remunerati di qualcosa che non ha più nessuna ragione microeconomica di esistere?

Terza riflessione. Rispetto a questa funzione di “guardiania” del paesaggio, la PAC prevede quella sorta di indennizzo che possono essere considerati gli “Aiuti allo sviluppo”, cioè quella parte considerevole degli aiuti destinata a finanziare la produzione di public goods, ovvero di quei beni che secondo la teoria economica non vengono remunerati adeguatamente dal mercato ma dai quali la collettività trarrebbero comunque un beneficio: oltre   alla tutela del paesaggio rurale, anche la salvaguardia ambientale, la lotta ai cambiamenti climatici, la tutela della biodiversità, la sopravvivenza della piccola impresa agricola.

Quarta riflessione. Anche la strada degli aiuti allo sviluppo per la produzione di quel public good che è la conservazione del paesaggio olivicolo tradizionale, vista la dimensione (in ettari) del problema, rischia di avere dei costi insostenibili… per i contribuenti che provvedono a finanziare la PAC.

Visto che il lavoro nei campi è direttamente funzionale alla produzione di un paesaggio, con ogni probabilità anche la sua conservazione dovrebbe passare dal lavoro nei campi. E quindi si dovrebbero riconsiderare tutte quelle discipline o imposizioni volte a ridurre la libertà di fare le scelte colturali alla singola impresa agricola. Meglio di me, argomenta qui o qui l prof. Scaramuzzi (Accademia dei Gorgofili).



Certo, il paesaggio agricolo potrebbe alla fine anche assumere aspetti diverso rispetto alle forme dell’olivicoltura tradizionale… ma almeno ogni singolo campo sarebbe rigoglioso e curato. E, comunque, l’alternativa del “coltivare case” non è certo meno distorcente i caratteri del paesaggio dell’olivicoltura tradizionale.

mercoledì 11 gennaio 2012

materiale didattico corso Amministratori di condominio

Il materiale didattico riferito al corso per amministratori di condominio è disponibile al seguente link (da copiare e incollare): https://docs.google.com/open?id=0B79jE8SCdbV3MmE4ZGZiOTMtYzg5OC00Y2VjLWJiN2YtYzBkYmMwNWM0MDgx

lunedì 9 gennaio 2012

le forme dell'energia...e il suo prezzo

Comunicare i rapporti tra l'evoluzione degli scenari energetici e la trasformazione degli spazi domestici e urbani. È questo il tema che il mio Ordine sta portando nelle scuole e, forse, all'attenzione delle associazioni di consumatori. Dopo una prima esperienza è arrivato il momento di correggere un po' il tiro. Che cosa è da mettere in maggior evidenza?

Le forme dell'energia sono soggette a molte spinte, tra le quali quelle direttamente legate all'attualità sono da mettere in maggior evidenza. 
Ogni inizio anno assistiamo alla consueta sventagliata di articoli con tema i rincari. Bene: qual è la dinamica della revisione annuale delle tariffe elettriche e del gas rispetto all'inflazione? E, dato che il prezzo dell'energia aumenta più velocemente di quello del paniere di prodotti sottostante l'indice generale, una maggior efficienza energetica dell'edilizia contribuisce a proteggere dall'inflazione specifica del settore energetico.
L'anno appena passato abbiamo assistito alla crisi del meccanismo di incentivazione delle fonti energetiche rinnovabili. Bene: il Conto Energia è soltanto un aggravio della bolletta elettrica? Qualche studio recente, seppur  in veste ancora preliminare, sembra dire il contrario. Allorché la domanda di energia è massima, soprattutto in estate quando entrano in scena i condizionatori, anche il prezzo diventa massimo. L'immissione di energia prodotta da fonti rinnovabili, invece, tende a ridurne il prezzo marginale. Di fatto, l'energia da fonti rinnovabili, segnatamente allorché l'insolazione è massima, tende a sostituire la generazione elettrica più obsoleta, cioè quella che ha i costi di produzione più elevati. Da qui l'effetto di calmieramento del prezzo di acquisto.

lunedì 2 gennaio 2012

a scuola verso gli edifici a consumo quasi zero


Cosa vuol dire parlare del rapporto tra energia ed edilizia con i giovani studenti di cui ho già parlato altre volte?

Ha voluto dire fissare l'obiettivo finale: l'autosufficienza energetica di un edificio... e quindi l'approccio passa dal singolo alloggio all'intero organismo edilizio. Ma soprattutto, non ha voluto dire che un "edificio a consumo quasi zero" è un edificio che non consuma energia.

(Casa 100K - Mario Cucinella)

Ha voluto dire definire l'impostazione del percorso progettuale sulla base della stretta interdipendenza tra prestazioni dell'involucro edilizio e impianti. Nel senso che il raggiungimento dell'obiettivo lo si può perseguire non partendo dalla struttura dei consumi energetici attuali e provvedendo a sostituire le fonti energetiche: sarebbe troppo facile. Ma anteponendo la sostituzione delle fonti energetiche a una rigorosa dieta dimagrante, suscettibile di essere ottenuta attraverso il miglioramento delle prestazioni dell'involucro e la conseguente rilevante riduzione del fabbisogno energetico del singolo edificio.

Ha voluto dire, poi, determinare una pluralità di strategie possibili per la produzione di energia, a partire dai guadagni diretti (ad es. serre solari) per arrivare ai diversi modi di sfruttamento delle fonti energetiche rinnovabili (solare termico, solare fotovoltaico, minieolico, biomasse,...). 

(Camille Corot - Mulino a vento a Montmartre - 1845)

Ha, infine, voluto dire che un edificio non sarà più caratterizzato da un unico sistema di generazione ma, rispetto alla vasta gamma di opportunità per lo sfruttamento delle rinnovabili, lo specifico progetto ha il compito di scegliere i sistemi di generazione in funzione della loro convenienza microeconomica. E quindi si assisterà a edifici connotati da più sistemi di generazione, nell'ambito dei quali le fonti energetiche convenzionali avranno una funzione integrativa nel bilancio energetico dell’edificio stesso.