Interessante la lettura del DPEF 2008-2011 con gli occhiali di chi si deve occupare delle politiche abitative. La questione della casa è citata nell’ambito delle Politiche per l’equità sociale (pag. 77 e segg.).
I paragrafi che individuano misure in qualche modo dedicate sono quello relativo all’Equità sociale e quello riferito alla politica tributaria.
Equità sociale
Cosa c’è: “attuazione del piano triennale per l’edilizia abitativa”. In altri termini, la dimensione programmatica è data dalla risposta all’emergenza di casa ai sensi dell’articolo 3 della legge 9/07.
Cosa non c’è:
- la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni (impegno presente invece per altri segmenti delle politiche sociali, ad esempio per i non autosufficienti);
- la predisposizione del nuovo intervento statale nel settore abitativo, ai sensi dell’articolo 4 della legge 9/07 e come logica prosecuzione dell’attività del Tavolo di concertazione.
In altri termini, lo sbocco del Tavolo di concertazione è la soluzione dell’emergenza. Ma allora, forse, bastava la lettura di qualche giornale oppure la sosta per qualche ora nelle sale di attesa di qualche ufficio comunale.
Politica tributaria tra crescita ed equità
Cosa c’è: la “riduzione della tassazione sulla casa”, segnatamente attraverso la riduzione dell’ICI a partire dall’anno 2008 sull’insieme delle abitazioni principali e la revisione della tassazione dei redditi da locazione nel contesto della più generale riforma della tassazione dei redditi da capitale.
Cosa non c’è: semplicemente il quadro del contributo che il fisco può dare alla politica per la casa.
In altri termini, la politica per la casa che viene implementata dopo il Tavolo di concertazione di cui alla legge 9/07, di fatto, ne ignora le conclusioni. L’allargamento della platea dei beneficiari a tutti i proprietari di casa non riconosce le dinamiche dei bisogni di casa che, invece che generalisti, sono di nicchia e necessitano di interventi fiscali profondi in termini quantitativi e molto selettivi come ambito di applicazione.
Conclusione: rispetto alla politica per la casa, l’intervento statale per le pari opportunità risulta premiato. Almeno ha ottenuto un paragrafo a sé stante.
sabato 30 giugno 2007
domenica 24 giugno 2007
la trasformazione degli attori delle politiche abitative
La domanda abitativa degli anziani si presenta sia fortemente crescente in termini quantitativi sia connotata da caratteristiche affatto particolari, dove l’abitazione in quanto tale costituisce solo una delle componenti dell’abitare.
Vi sono le condizioni per ipotizzare lo sviluppo di una nuova domanda che non è solo di nuove tipologie abitative ma di riorganizzazione di parti di città, dei servizi, dei trasporti.
In queste condizioni la capacità di gestire il patrimonio abitativo e i servizi connessi, di assicurare cioè un’offerta abitativa completa e di calibrare l’offerta sulla capacità di spesa della domanda costituisce l’elemento chiave per costruire un canale di offerta abitativa mirato sulle esigenze delle famiglie anziane.
E se non si intende che tale canale assuma i caratteri della realizzazione di ghetti per anziani, occorre giocare questa offerta abitativa prevalentemente sul terreno della gestione del patrimonio abitativo esistente e non su quello della produzione di insediamenti monogenerazionali.
In altri termini, il tradizionale e però ancora attuale ciclo di offerta di edilizia residenziale sociale giocato pressoché esclusivamente su due fasi, produzione e affitto (o vendita), dovrebbe arricchirsi di una fase di gestione finanziaria, immobiliare e manutentiva del patrimonio residenziale che comprenda anche la gestione dei servizi direttamente connessi alla residenza.
E’ del tutto evidente che per favorire lo sviluppo di un’attività di gestione matura del patrimonio abitativo non basta indicarne l’opportunità. Occorrono altresì adeguati strumenti normativi e, soprattutto, occorre favorire la costituzione di nuovi soggetti di gestione. In particolare i canali di offerta/gestione riguardanti la domanda abitativa espressa dagli anziani (ma anche dai giovani) sembra richiamare in primis strutture “no-profit”.
In questa logica può risultare vincente e sicuramente innovativo coinvolgere il terzo settore come soggetto in grado di realizzare specifici network anche rispetto all’housing sociale.
Vi sono le condizioni per ipotizzare lo sviluppo di una nuova domanda che non è solo di nuove tipologie abitative ma di riorganizzazione di parti di città, dei servizi, dei trasporti.
In queste condizioni la capacità di gestire il patrimonio abitativo e i servizi connessi, di assicurare cioè un’offerta abitativa completa e di calibrare l’offerta sulla capacità di spesa della domanda costituisce l’elemento chiave per costruire un canale di offerta abitativa mirato sulle esigenze delle famiglie anziane.
E se non si intende che tale canale assuma i caratteri della realizzazione di ghetti per anziani, occorre giocare questa offerta abitativa prevalentemente sul terreno della gestione del patrimonio abitativo esistente e non su quello della produzione di insediamenti monogenerazionali.
In altri termini, il tradizionale e però ancora attuale ciclo di offerta di edilizia residenziale sociale giocato pressoché esclusivamente su due fasi, produzione e affitto (o vendita), dovrebbe arricchirsi di una fase di gestione finanziaria, immobiliare e manutentiva del patrimonio residenziale che comprenda anche la gestione dei servizi direttamente connessi alla residenza.
E’ del tutto evidente che per favorire lo sviluppo di un’attività di gestione matura del patrimonio abitativo non basta indicarne l’opportunità. Occorrono altresì adeguati strumenti normativi e, soprattutto, occorre favorire la costituzione di nuovi soggetti di gestione. In particolare i canali di offerta/gestione riguardanti la domanda abitativa espressa dagli anziani (ma anche dai giovani) sembra richiamare in primis strutture “no-profit”.
In questa logica può risultare vincente e sicuramente innovativo coinvolgere il terzo settore come soggetto in grado di realizzare specifici network anche rispetto all’housing sociale.
la nuova domanda abitativa: oltre l'alloggio, la fornitura di servizi
Le carenze dell’attuale offerta insediativa mettono seriamente in discussione le attuali forme di intervento nel settore della casa e richiamano l’arrivo di nuovi attori.
La crescita della popolazione anziana e, in particolare, dei nuclei familiari composti unicamente da uno o due anziani tende a generare una fascia di domanda abitativa molto consistente e con caratteristiche del tutto particolari:
· reddito molto basso (specialmente nel caso di nuclei il cui reddito è assicurato unicamente da una pensione);
· esigenza di servizi complementari all’abitazione;
· richiesta di forme di vigilanza particolarmente intense;
· necessità di trasporti collettivi agevoli, in grado di surrogare il mezzo privato;
· tipologie residenziali specifiche.
Questo pacchetto di esigenze è soddisfatto in modo del tutto parziale dall’attuale sistema abitativo, sia che si tratti del comparto di abitazioni in affitto, sia che si tratti del comparto di abitazioni in proprietà.
In particolare, l’offerta di abitazioni in locazione non sempre appare coerente con i limiti di reddito delle famiglie di pensionati e, al contempo, sono poco diffusi i servizi complementari e di assistenza necessari alla popolazione anziana.
Le tipologie residenziali coerenti con le esigenze degli anziani costituiscono ancora una eccezione.
Se allarghiamo la gamma dei servizi dal ristretto ambito dell’alloggio a quello del quartiere, le carenze aumentano ancor più: i servizi di vigilanza a livello di quartiere, se si escludono poche eccezioni, risultano tendenzialmente carenti rispetto ai parametri richiesti da questa fascia di popolazione; i trasporti collettivi in grado di sostituire il mezzo di trasporto privato generalmente sono presenti nelle aree urbane centrali mentre appaiono sostanzialmente insufficienti nelle aree periferiche.
In sostanza, le nostre case e le nostre città appaiono sostanzialmente “impreparate” al processo di progressivo invecchiamento della popolazione.
Appare necessario guardare in modo diverso alla questione abitativa, legando maggiormente la domanda di case da parte dei soggetti “deboli” con le caratteristiche proprie di questa domanda, spostando l’attenzione dal piano prettamente edilizio-urbanistico a quello delle funzioni, attraverso un’integrazione stretta tra progettualità architettonica, gestione e fornitura di servizi in una logica di residenzialità.
Del resto è lo stesso mercato che si sta riposizionando su una capacità di promozione immobiliare più attenta all’utenza finale e a una domanda sempre meno “generica” e più personalizzata.
La crescita della popolazione anziana e, in particolare, dei nuclei familiari composti unicamente da uno o due anziani tende a generare una fascia di domanda abitativa molto consistente e con caratteristiche del tutto particolari:
· reddito molto basso (specialmente nel caso di nuclei il cui reddito è assicurato unicamente da una pensione);
· esigenza di servizi complementari all’abitazione;
· richiesta di forme di vigilanza particolarmente intense;
· necessità di trasporti collettivi agevoli, in grado di surrogare il mezzo privato;
· tipologie residenziali specifiche.
Questo pacchetto di esigenze è soddisfatto in modo del tutto parziale dall’attuale sistema abitativo, sia che si tratti del comparto di abitazioni in affitto, sia che si tratti del comparto di abitazioni in proprietà.
In particolare, l’offerta di abitazioni in locazione non sempre appare coerente con i limiti di reddito delle famiglie di pensionati e, al contempo, sono poco diffusi i servizi complementari e di assistenza necessari alla popolazione anziana.
Le tipologie residenziali coerenti con le esigenze degli anziani costituiscono ancora una eccezione.
Se allarghiamo la gamma dei servizi dal ristretto ambito dell’alloggio a quello del quartiere, le carenze aumentano ancor più: i servizi di vigilanza a livello di quartiere, se si escludono poche eccezioni, risultano tendenzialmente carenti rispetto ai parametri richiesti da questa fascia di popolazione; i trasporti collettivi in grado di sostituire il mezzo di trasporto privato generalmente sono presenti nelle aree urbane centrali mentre appaiono sostanzialmente insufficienti nelle aree periferiche.
In sostanza, le nostre case e le nostre città appaiono sostanzialmente “impreparate” al processo di progressivo invecchiamento della popolazione.
Appare necessario guardare in modo diverso alla questione abitativa, legando maggiormente la domanda di case da parte dei soggetti “deboli” con le caratteristiche proprie di questa domanda, spostando l’attenzione dal piano prettamente edilizio-urbanistico a quello delle funzioni, attraverso un’integrazione stretta tra progettualità architettonica, gestione e fornitura di servizi in una logica di residenzialità.
Del resto è lo stesso mercato che si sta riposizionando su una capacità di promozione immobiliare più attenta all’utenza finale e a una domanda sempre meno “generica” e più personalizzata.
i livelli essenziali e il rapporto con le risorse finanziarie
L’articolo 117, comma 2, lett. m) della Costituzione conferisce allo Stato potere legislativo esclusivo nella determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da garantire su tutto il territorio nazionale.
Punto di riferimento sono i diritti sociali da garantire e rendere esigibili su tutto il territorio nazionale, individuando le prestazioni e il relativo livello di erogazione che viene ritenuto essenziale a tale realizzazione.
L’espressione “livelli essenziali” è comparsa nella legislazione ordinaria degli ultimi anni, prima nell’ambito sanitario e poi in quello socio assistenziale.
Un assetto di questo genere è da ritenere un rilevante precedente, praticamente obbligatorio, in riferimento anche all’ambito delle politiche abitative.
Prima ancora di definirne il contenuto, sembra opportuno chiarire quale sia lo statuto istituzionale, oltre che concettuale, dei livelli essenziali delle prestazioni. Dalla letteratura scientifica, si comprende come essi potrebbero essere intesi in linea di principio in quattro modi diversi:
a) come diritti soggettivi esigibili (ad esempio tutti i bambini sotto i tre anni hanno diritto ad una quota di servizi/risorse pubbliche);
b) come livelli minimi di copertura (ad esempio un numero di posti nido che in ogni regione garantisca una determinata percentuale di copertura);
c) come tipologie di offerta (ad esempio, in tutte le regioni o comuni e consorzi di comuni ci deve essere almeno un servizio per l’infanzia, un servizio per le persone non autosufficienti, un segretariato sociale);
d) come standard minimi di prestazione (ad esempio i servizi per la prima infanzia, se offerti, devono soddisfare determinati requisiti minimi in termini di volumetria, rapporto personale/bambini, titolo di studio del personale ecc.).
I quattro modi non sono necessariamente mutuamente esclusivi; potrebbero anche essere complementari.
Tra le possibili definizioni di livello essenziale sopra citate, lo Stato, o almeno il Ministero delle politiche sociali, sembra optare per l’approccio “diritti soggettivi esigibili”. Tutto è, di fatto, rimandato alla negoziazione e alle disponibilità finanziarie, quindi l’approccio fa capo a un concetto di “esigibilità sostenibile”.
Il concetto di livello essenziale e uniforme si ritrova nell’art.1, comma 2, del d.lgs. n. 229/99, per cui il SSN è diretto ad assicurare “i livelli essenziali e uniformi di assistenza”. In tale ambito, l’espressione viene collegata ad alcuni principi, tra cui “il rispetto della dignità della persona umana, il bisogno di salute, l’equità nell’accesso all’assistenza”, che, nella logica del decreto, valgono a giustificare la necessità della determinazione a livello nazionale di standards di servizi da garantire a tutti i cittadini. Non manca, tuttavia, anche il richiamo alla dimensione economica e finanziaria. Si precisa, infatti: “L’individuazione dei livelli essenziali e uniformi di assistenza è effettuata contestualmente all’individuazione delle risorse finanziarie destinate al SSN, nel rispetto delle compatibilità finanziarie definite per l’intero sistema di finanza pubblica nel DPEF”.
L’ulteriore ambito in cui si ritrova poi l’espressione livello essenziale è quello dell’assistenza sociale dove la legge quadro 328/00 collega questa nozione a una dimensione non solo etico sociale ma anche di compatibilità finanziaria. Il provvedimento di legge precisa “nei limiti delle risorse del Fondo nazionale per le politiche sociali, tenuto conto delle risorse ordinarie già destinate dagli enti locali alla spesa sociale”. Più precisamente, sul modello del Piano sanitario nazionale, viene prevista l’adozione del Piano nazionale degli interventi e dei servizi sociali come atto fondamentale di programmazione che individua, tra l’altro, i livelli essenziali e uniformi delle prestazioni sociali.
Rispetto ai livelli essenziali della sanità, quelli delle prestazioni sociali appaiono di carattere meno puntuale e più generico, probabilmente anche in considerazione del diverso titolo di competenza regionale (di tipo primario) definito, in materia, dal nuovo Titolo V della Costituzione.
La sintetica ricostruzione dell’architettura esistente per la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni, conduce a queste considerazioni:
a) l’intervento legislativo (o normativo) statale in materia di determinazione dei livelli essenziali di servizio abitativo deve individuare “prestazioni” e non sistemi organizzativi, che rappresentano il mezzo con cui operare per raggiungere il fine della garanzia della prestazione. L’individuazione delle modalità organizzative, degli standard da adottare per raggiungere l’obiettivo della garanzia delle prestazioni, restano viceversa in capo alla responsabilità del sistema Regione/Autonomie Locali, ciascuno per la propria competenza e livello di responsabilità, all'interno di un sistema di governance e di leale collaborazione istituzionale;
b) il tema della definizione dei livelli essenziali delle prestazioni va affrontato unitamente a quello delle risorse finanziarie necessarie a garantirli. L’individuazione dei livelli essenziali da parte dello Stato non può infatti prescindere dalla assunzione di responsabilità sul loro finanziamento. Da questo punto di vista, in un’ottica di regionalizzazione, si ritiene determinante e fortemente connesso al tema della recisa determinazione dei livelli essenziali quello della attuazione dell’articolo 119 della Costituzione;
c) il forte e ineludibile legame tra determinazione delle prestazioni ricomprese nei livelli essenziali da garantire in tutto il territorio nazionale e risorse economiche necessarie a finanziarle, con la necessità che vengano garantite a tutti coloro che rientrano nel target del bisogno/prestazione, fa sì che si debba necessariamente pensare a un sistema di definizione dei livelli graduale e progressivo, accompagnato da una costante azione di monitoraggio e verifica dell’impatto sull’intero sistema sociale, sia in termini finanziari sia organizzativi.
In relazione a quanto esposto il concetto di livello essenziale può essere così sostanziato:
a) un insieme di azioni o, meglio, di differenti servizi abitativi, che vedono concorrere sul piano finanziario i Comuni, le Regioni e lo Stato e la cui consistenza subordina l’erogazione delle prestazioni;
b) il diritto da parte del cittadino di essere destinatario delle azioni di cui alla lettera a), che, in via prioritaria sono dirette alle diverse tipologie di soggetti fragili che, in modo differente, palesano un bisogno di casa;
c) la necessità che tali azioni abbiano una distribuzione territoriale attenta alle possibilità che i cittadini possano accedere ai servizi abitativi, da perseguire attraverso indirizzi alle Regioni in luogo di precisi standard di erogazione.
Sulla base di questi presupposti è possibile ipotizzare un percorso che consenta di giungere a una quantificazione dei livelli essenziali, sia in termini programmatori sia finanziari, a partire dall’analisi dei dati sullo stato attuale della domanda e sul sistema di offerta dei servizi abitativi attraverso il monitoraggio, omogeneo sull’intero territorio nazionale, di alcuni indicatori collegati ai livelli essenziali stessi.
A partire da questo è possibile individuare per ciascuna funzione abitativa un livello essenziale, inteso come garanzia ad un target di popolazione di un diritto soggettivo, realisticamente perseguibile sull’intero territorio nazionale.
Tale livello potrà essere ridefinito nel corso degli anni, sulla base dell’evoluzione dei bisogni e delle risorse disponibili.
Individuare per ciascun livello la popolazione di riferimento consente inoltre, sulla base di una stima dei costi medi per prestazione e per servizi resi, di valutare il fabbisogno finanziario collegato ai livelli essenziali.
In base ai dati rilevati spetta ai diversi livelli istituzionali coinvolti (Stato, Regioni ed Enti Locali) individuare le rispettive quote di compartecipazione finanziariaria, nel quadro di un sistema di governance concertata e di corresponsabilità istituzionale.
Punto di riferimento sono i diritti sociali da garantire e rendere esigibili su tutto il territorio nazionale, individuando le prestazioni e il relativo livello di erogazione che viene ritenuto essenziale a tale realizzazione.
L’espressione “livelli essenziali” è comparsa nella legislazione ordinaria degli ultimi anni, prima nell’ambito sanitario e poi in quello socio assistenziale.
Un assetto di questo genere è da ritenere un rilevante precedente, praticamente obbligatorio, in riferimento anche all’ambito delle politiche abitative.
Prima ancora di definirne il contenuto, sembra opportuno chiarire quale sia lo statuto istituzionale, oltre che concettuale, dei livelli essenziali delle prestazioni. Dalla letteratura scientifica, si comprende come essi potrebbero essere intesi in linea di principio in quattro modi diversi:
a) come diritti soggettivi esigibili (ad esempio tutti i bambini sotto i tre anni hanno diritto ad una quota di servizi/risorse pubbliche);
b) come livelli minimi di copertura (ad esempio un numero di posti nido che in ogni regione garantisca una determinata percentuale di copertura);
c) come tipologie di offerta (ad esempio, in tutte le regioni o comuni e consorzi di comuni ci deve essere almeno un servizio per l’infanzia, un servizio per le persone non autosufficienti, un segretariato sociale);
d) come standard minimi di prestazione (ad esempio i servizi per la prima infanzia, se offerti, devono soddisfare determinati requisiti minimi in termini di volumetria, rapporto personale/bambini, titolo di studio del personale ecc.).
I quattro modi non sono necessariamente mutuamente esclusivi; potrebbero anche essere complementari.
Tra le possibili definizioni di livello essenziale sopra citate, lo Stato, o almeno il Ministero delle politiche sociali, sembra optare per l’approccio “diritti soggettivi esigibili”. Tutto è, di fatto, rimandato alla negoziazione e alle disponibilità finanziarie, quindi l’approccio fa capo a un concetto di “esigibilità sostenibile”.
Il concetto di livello essenziale e uniforme si ritrova nell’art.1, comma 2, del d.lgs. n. 229/99, per cui il SSN è diretto ad assicurare “i livelli essenziali e uniformi di assistenza”. In tale ambito, l’espressione viene collegata ad alcuni principi, tra cui “il rispetto della dignità della persona umana, il bisogno di salute, l’equità nell’accesso all’assistenza”, che, nella logica del decreto, valgono a giustificare la necessità della determinazione a livello nazionale di standards di servizi da garantire a tutti i cittadini. Non manca, tuttavia, anche il richiamo alla dimensione economica e finanziaria. Si precisa, infatti: “L’individuazione dei livelli essenziali e uniformi di assistenza è effettuata contestualmente all’individuazione delle risorse finanziarie destinate al SSN, nel rispetto delle compatibilità finanziarie definite per l’intero sistema di finanza pubblica nel DPEF”.
L’ulteriore ambito in cui si ritrova poi l’espressione livello essenziale è quello dell’assistenza sociale dove la legge quadro 328/00 collega questa nozione a una dimensione non solo etico sociale ma anche di compatibilità finanziaria. Il provvedimento di legge precisa “nei limiti delle risorse del Fondo nazionale per le politiche sociali, tenuto conto delle risorse ordinarie già destinate dagli enti locali alla spesa sociale”. Più precisamente, sul modello del Piano sanitario nazionale, viene prevista l’adozione del Piano nazionale degli interventi e dei servizi sociali come atto fondamentale di programmazione che individua, tra l’altro, i livelli essenziali e uniformi delle prestazioni sociali.
Rispetto ai livelli essenziali della sanità, quelli delle prestazioni sociali appaiono di carattere meno puntuale e più generico, probabilmente anche in considerazione del diverso titolo di competenza regionale (di tipo primario) definito, in materia, dal nuovo Titolo V della Costituzione.
La sintetica ricostruzione dell’architettura esistente per la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni, conduce a queste considerazioni:
a) l’intervento legislativo (o normativo) statale in materia di determinazione dei livelli essenziali di servizio abitativo deve individuare “prestazioni” e non sistemi organizzativi, che rappresentano il mezzo con cui operare per raggiungere il fine della garanzia della prestazione. L’individuazione delle modalità organizzative, degli standard da adottare per raggiungere l’obiettivo della garanzia delle prestazioni, restano viceversa in capo alla responsabilità del sistema Regione/Autonomie Locali, ciascuno per la propria competenza e livello di responsabilità, all'interno di un sistema di governance e di leale collaborazione istituzionale;
b) il tema della definizione dei livelli essenziali delle prestazioni va affrontato unitamente a quello delle risorse finanziarie necessarie a garantirli. L’individuazione dei livelli essenziali da parte dello Stato non può infatti prescindere dalla assunzione di responsabilità sul loro finanziamento. Da questo punto di vista, in un’ottica di regionalizzazione, si ritiene determinante e fortemente connesso al tema della recisa determinazione dei livelli essenziali quello della attuazione dell’articolo 119 della Costituzione;
c) il forte e ineludibile legame tra determinazione delle prestazioni ricomprese nei livelli essenziali da garantire in tutto il territorio nazionale e risorse economiche necessarie a finanziarle, con la necessità che vengano garantite a tutti coloro che rientrano nel target del bisogno/prestazione, fa sì che si debba necessariamente pensare a un sistema di definizione dei livelli graduale e progressivo, accompagnato da una costante azione di monitoraggio e verifica dell’impatto sull’intero sistema sociale, sia in termini finanziari sia organizzativi.
In relazione a quanto esposto il concetto di livello essenziale può essere così sostanziato:
a) un insieme di azioni o, meglio, di differenti servizi abitativi, che vedono concorrere sul piano finanziario i Comuni, le Regioni e lo Stato e la cui consistenza subordina l’erogazione delle prestazioni;
b) il diritto da parte del cittadino di essere destinatario delle azioni di cui alla lettera a), che, in via prioritaria sono dirette alle diverse tipologie di soggetti fragili che, in modo differente, palesano un bisogno di casa;
c) la necessità che tali azioni abbiano una distribuzione territoriale attenta alle possibilità che i cittadini possano accedere ai servizi abitativi, da perseguire attraverso indirizzi alle Regioni in luogo di precisi standard di erogazione.
Sulla base di questi presupposti è possibile ipotizzare un percorso che consenta di giungere a una quantificazione dei livelli essenziali, sia in termini programmatori sia finanziari, a partire dall’analisi dei dati sullo stato attuale della domanda e sul sistema di offerta dei servizi abitativi attraverso il monitoraggio, omogeneo sull’intero territorio nazionale, di alcuni indicatori collegati ai livelli essenziali stessi.
A partire da questo è possibile individuare per ciascuna funzione abitativa un livello essenziale, inteso come garanzia ad un target di popolazione di un diritto soggettivo, realisticamente perseguibile sull’intero territorio nazionale.
Tale livello potrà essere ridefinito nel corso degli anni, sulla base dell’evoluzione dei bisogni e delle risorse disponibili.
Individuare per ciascun livello la popolazione di riferimento consente inoltre, sulla base di una stima dei costi medi per prestazione e per servizi resi, di valutare il fabbisogno finanziario collegato ai livelli essenziali.
In base ai dati rilevati spetta ai diversi livelli istituzionali coinvolti (Stato, Regioni ed Enti Locali) individuare le rispettive quote di compartecipazione finanziariaria, nel quadro di un sistema di governance concertata e di corresponsabilità istituzionale.
individuare i beneficiari dei servizi abitativi: uno schema di riferimento
Considerando la specificità delle politiche per la casa, un articolato test dei mezzi (mean testing), verosimilmente composto da elementi sia reddituali che patrimoniali, dovrebbe generalmente essere affiancato da un’accurata analisi della condizione di disagio del soggetto richiedente che permetta all’istituto erogatore di distinguere tra:
a) soggetti in disagio temporaneo, destinatari naturali di gran parte degli strumenti temporanei di assistenza abitativa;
b) soggetti in disagio “cronico” che, viceversa, dovrebbero essere interessati da misure di sostegno alla povertà di più ampio respiro rispetto alla singolarità delle politiche abitative.
In relazione alle politiche per la casa si ritiene opportuno distinguere le fasi riferite all’individuazione delle caratteristiche dei soggetti eleggibili (target), rispetto ai dettagli normativi adottati per selezionare, tra tutti i potenziali soggetti eleggibili, quelli che in seguito allo stringente vincolo di bilancio saranno preferiti ad altri.
L’architettura alla base di una politica di assegnazione di servizi abitativi prevede:
a) criteri di eleggibilità (eligibility), tali da definire i confini categoriali del programma abitativo:
1. individuazione delle categorie di soggetti ritenuti meritevoli dell’intervento pubblico, potenziali beneficiari della spesa;
2. definizione delle procedure amministrative per accertare il possesso delle caratteristiche non monetarie (età, inabilità, condizione professionale, carichi di famiglia, ecc.) che danno diritto alla prestazione;
b) criteri di assegnazione (entitlement), tali da definire i criteri economici che sanciscono il diritto effettivo alla prestazione abitativa:
1. specificazione delle variabili monetarie e costruzione dell’algoritmo per la verifica della prova dei mezzi (means testing);
2. calcolo del livello di beneficio da erogare;
3. monitoraggio e verifica del grado di partecipazione (take up) al programma di spesa da parte degli aventi diritto.
a) soggetti in disagio temporaneo, destinatari naturali di gran parte degli strumenti temporanei di assistenza abitativa;
b) soggetti in disagio “cronico” che, viceversa, dovrebbero essere interessati da misure di sostegno alla povertà di più ampio respiro rispetto alla singolarità delle politiche abitative.
In relazione alle politiche per la casa si ritiene opportuno distinguere le fasi riferite all’individuazione delle caratteristiche dei soggetti eleggibili (target), rispetto ai dettagli normativi adottati per selezionare, tra tutti i potenziali soggetti eleggibili, quelli che in seguito allo stringente vincolo di bilancio saranno preferiti ad altri.
L’architettura alla base di una politica di assegnazione di servizi abitativi prevede:
a) criteri di eleggibilità (eligibility), tali da definire i confini categoriali del programma abitativo:
1. individuazione delle categorie di soggetti ritenuti meritevoli dell’intervento pubblico, potenziali beneficiari della spesa;
2. definizione delle procedure amministrative per accertare il possesso delle caratteristiche non monetarie (età, inabilità, condizione professionale, carichi di famiglia, ecc.) che danno diritto alla prestazione;
b) criteri di assegnazione (entitlement), tali da definire i criteri economici che sanciscono il diritto effettivo alla prestazione abitativa:
1. specificazione delle variabili monetarie e costruzione dell’algoritmo per la verifica della prova dei mezzi (means testing);
2. calcolo del livello di beneficio da erogare;
3. monitoraggio e verifica del grado di partecipazione (take up) al programma di spesa da parte degli aventi diritto.
sabato 23 giugno 2007
tasso variabile vs. tasso fisso
La preferenza dei mutuatari italiani per il tasso variabile è determinata, come viene notato da La Voce, anche da anomalie di costo.
Anche dalla Banca d’Italia viene segnalata una specifica anomalia italiana: "il differenziale fra il costo dei mutui a tasso fisso e quelli a tasso variabile è stato nel 2006 di 80 punti base, a fronte dei 30 registrati, in media, nell'area dell'euro".
L’anomalia ha origini diverse. Un fattore è senz’altro nella differenza "genetica" dei mutui-casa italiani a tasso fisso. In molti paesi esteri si paga sì a tasso fisso, ma i tassi di riferimento sono quelli di medio termine perché dopo pochi anni il tasso può essere rinegoziato o trasformato in variabile.
In Italia, invece, esiste un marcato utilizzo dei tassi a lungo termine, perché storicamente i mutui non sono rinegoziabili, se non dietro pagamento di una proibitiva penale.
Finora, quindi, il mutuatario era, di fatto, vincolato alle condizioni di tasso iniziali. Con i decreti Bersani e il recente accordo tra Abi e consumatori, che hanno ridotto le penali anche sul tasso fisso, la situazione del mutuatario italiano può diventare più flessibile.
E, quindi, è augurabile che anche tale differenza tra fisso e variabile possa diminuire. Anche a vantaggio di chi si indebita: le famiglie ma anche le imprese che realizzano per poi concedere in locazione.
Anche dalla Banca d’Italia viene segnalata una specifica anomalia italiana: "il differenziale fra il costo dei mutui a tasso fisso e quelli a tasso variabile è stato nel 2006 di 80 punti base, a fronte dei 30 registrati, in media, nell'area dell'euro".
L’anomalia ha origini diverse. Un fattore è senz’altro nella differenza "genetica" dei mutui-casa italiani a tasso fisso. In molti paesi esteri si paga sì a tasso fisso, ma i tassi di riferimento sono quelli di medio termine perché dopo pochi anni il tasso può essere rinegoziato o trasformato in variabile.
In Italia, invece, esiste un marcato utilizzo dei tassi a lungo termine, perché storicamente i mutui non sono rinegoziabili, se non dietro pagamento di una proibitiva penale.
Finora, quindi, il mutuatario era, di fatto, vincolato alle condizioni di tasso iniziali. Con i decreti Bersani e il recente accordo tra Abi e consumatori, che hanno ridotto le penali anche sul tasso fisso, la situazione del mutuatario italiano può diventare più flessibile.
E, quindi, è augurabile che anche tale differenza tra fisso e variabile possa diminuire. Anche a vantaggio di chi si indebita: le famiglie ma anche le imprese che realizzano per poi concedere in locazione.
domenica 3 giugno 2007
mobilità da lavoro: quale policy?
Nella misura in cui la mobilità geografica riguarda i lavoratori, essa può influenzare i meccanismi di aggiustamento del mercato del lavoro, nel senso che una ridotta mobilità geografica può ostacolare i processi di riequilibrio delle disparità regionali esistenti nei tassi di occupazione e disoccupazione.
In Italia, effettivamente, a una bassa mobilità geografica di lungo raggio sembra corrispondere un divario accentuato nei tassi di occupazione e disoccupazione nelle diverse aree geografiche del paese: a un Nord in sostanziale piena occupazione fa riscontro un Mezzogiorno in cui la quota di persone in cerca di lavoro è pari al 15% (circa il doppio della media nazionale), mentre il tasso di occupazione è al 46,1% (oltre dieci punti sotto la media nazionale).
Sotto il profilo degli impegni di governance pubblica del fenomeno, le implicazioni sono rilevanti. Se la mobilità interna, funzionale ad accrescere la flessibilità e la competitività dei sistemi produttivi locali, non è quindi un fenomeno necessariamente negativo, è certo, però, che essa comporti costi rilevanti che, in assenza di specifiche policy, gravano sugli individui e sulle famiglie.
Uno dei fattori che più incide, ostacolando in qualche modo la mobilità geografica interna, è dato dalla disponibilità della casa o, meglio, dalla facilità con cui si possa abbandonare (anche, e forse soprattutto, temporaneamente) la propria casa dal luogo di residenza e averne un’altra nel luogo ove si trova un lavoro. L’idea sottostante è che, a parte i fattori di natura socio-culturale, la propensione a cambiare residenza geografica sia relativamente più bassa per chi è proprietario della propria abitazione rispetto a chi è semplicemente in affitto a causa dei maggiori costi di transazione insiti nel cambiare un’abitazione di proprietà e per il rischio connesso di perdite in conto capitale. Conseguentemente, una politica abitativa che incoraggi fortemente la proprietà dell’abitazione di residenza e incrementi così in modo significativo il numero di case di proprietà sul totale della abitazioni esistenti può finire con l’influenzare in modo negativo la mobilità geografica all’interno di un paese e, per tale via, la capacità di riequilibrare i divari territoriali esistenti nei tassi di occupazione e disoccupazione.
Una politica che intenda operare invece sul fronte della mobilità interna, accettando l’assetto territoriale esistente del sistema produttivo, deve necessariamente porsi il problema del sostegno alla mobilità interna stessa, in modo da alleviarne i costi diretti e indiretti. Alcuni passi sono stati realizzati, quali quelli che hanno rimosso i costi legati all’estinzione dei mutui ipotecari, ma molti ne restano.
Una politica di promozione dell’offerta di alloggi, prevalentemente da destinare sia alla locazione a canone moderato sia alla locazione temporanea (cioè con contratti inferiori a un anno), appare non solo utile ma necessaria.
Posta l’importanza di un’offerta specifica, rimane anche da valutare con attenzione la problematica relativa alla scelta dell’interlocutore più adatto. Al riguardo occorre osservare come, sino a ora, gli interventi messi in campo (ad es. Regione Lombardia) abbiano cercato di stabilire rapporti diretti con i datori di lavoro. Dato il ruolo centrale che in questo campo svolgono le agenzie di lavoro interinale, sarebbe forse più utile e interessante costruire con queste ultime un rapporto più diretto.
In Italia, effettivamente, a una bassa mobilità geografica di lungo raggio sembra corrispondere un divario accentuato nei tassi di occupazione e disoccupazione nelle diverse aree geografiche del paese: a un Nord in sostanziale piena occupazione fa riscontro un Mezzogiorno in cui la quota di persone in cerca di lavoro è pari al 15% (circa il doppio della media nazionale), mentre il tasso di occupazione è al 46,1% (oltre dieci punti sotto la media nazionale).
Sotto il profilo degli impegni di governance pubblica del fenomeno, le implicazioni sono rilevanti. Se la mobilità interna, funzionale ad accrescere la flessibilità e la competitività dei sistemi produttivi locali, non è quindi un fenomeno necessariamente negativo, è certo, però, che essa comporti costi rilevanti che, in assenza di specifiche policy, gravano sugli individui e sulle famiglie.
Uno dei fattori che più incide, ostacolando in qualche modo la mobilità geografica interna, è dato dalla disponibilità della casa o, meglio, dalla facilità con cui si possa abbandonare (anche, e forse soprattutto, temporaneamente) la propria casa dal luogo di residenza e averne un’altra nel luogo ove si trova un lavoro. L’idea sottostante è che, a parte i fattori di natura socio-culturale, la propensione a cambiare residenza geografica sia relativamente più bassa per chi è proprietario della propria abitazione rispetto a chi è semplicemente in affitto a causa dei maggiori costi di transazione insiti nel cambiare un’abitazione di proprietà e per il rischio connesso di perdite in conto capitale. Conseguentemente, una politica abitativa che incoraggi fortemente la proprietà dell’abitazione di residenza e incrementi così in modo significativo il numero di case di proprietà sul totale della abitazioni esistenti può finire con l’influenzare in modo negativo la mobilità geografica all’interno di un paese e, per tale via, la capacità di riequilibrare i divari territoriali esistenti nei tassi di occupazione e disoccupazione.
Una politica che intenda operare invece sul fronte della mobilità interna, accettando l’assetto territoriale esistente del sistema produttivo, deve necessariamente porsi il problema del sostegno alla mobilità interna stessa, in modo da alleviarne i costi diretti e indiretti. Alcuni passi sono stati realizzati, quali quelli che hanno rimosso i costi legati all’estinzione dei mutui ipotecari, ma molti ne restano.
Una politica di promozione dell’offerta di alloggi, prevalentemente da destinare sia alla locazione a canone moderato sia alla locazione temporanea (cioè con contratti inferiori a un anno), appare non solo utile ma necessaria.
Posta l’importanza di un’offerta specifica, rimane anche da valutare con attenzione la problematica relativa alla scelta dell’interlocutore più adatto. Al riguardo occorre osservare come, sino a ora, gli interventi messi in campo (ad es. Regione Lombardia) abbiano cercato di stabilire rapporti diretti con i datori di lavoro. Dato il ruolo centrale che in questo campo svolgono le agenzie di lavoro interinale, sarebbe forse più utile e interessante costruire con queste ultime un rapporto più diretto.
casa e lavoro temporaneo
Rispetto allo scenario rappresentato dall’Istat nel Rapporto annuale 2006, nel mercato del lavoro è certamente in atto una parallela espansione del numero dei soggetti, che rimangono residenti nel luogo d’origine, ma che sono occupati temporaneamente in altre parti del territorio nazionale.
Pur non disponendo della stessa profondità analitica, anche in riferimento al tema della mobilità dei lavoratori temporanei emergono tesi riconducibili a quelle fatte dall’Istat.
Il loro ammontare in questi anni è stato oggetto di diverse stime non sempre coincidenti. Dall’ultimo rapporto ISTAT si evince che in Italia ci sono circa 150 mila lavoratori in somministrazione (che collaborano con le agenzie di lavoro temporaneo e interinale) e 110 mila prestatori di opera occasionali, a cui occorre aggiungere i circa 650 mila collaboratori per avere un quadro complessivo –anche se non aggiornato- del mondo del lavoro atipico in Italia.
Una ricerca dell’Irer del 2005 “Le politiche per la Casa: scenari e ipotesi strategiche”, calcola che il 21,46% del totale delle missioni di lavoro interinale hanno destinazione in una provincia diversa da quella di residenza. E la durata media della missione è poco superiore a 84 giorni, con una retribuzione media oraria pari a poco più di 8 €.
Utilizzando la base dati Manpower, una recente ricerca ha calcolato che quasi il 40% dei lavoratori interinali meridionali sono interessati da fenomeni di mobilità a lungo raggio. Al contempo, tale mobilità interessa soltanto tra il 2/4% dei lavoratori con residenza nelle regioni settentrionali.
Rilevante notare che circa un quinto dei casi di rifiuto dell’avviamento proposto sia dovuto alla lontananza della missione. È ragionevole chiedersi se parte di questi rifiuti abbiano motivazioni economiche che potrebbero venire meno in presenza di politiche per la casa che offrano sistemazioni abitative temporanee.
Pur non disponendo della stessa profondità analitica, anche in riferimento al tema della mobilità dei lavoratori temporanei emergono tesi riconducibili a quelle fatte dall’Istat.
Il loro ammontare in questi anni è stato oggetto di diverse stime non sempre coincidenti. Dall’ultimo rapporto ISTAT si evince che in Italia ci sono circa 150 mila lavoratori in somministrazione (che collaborano con le agenzie di lavoro temporaneo e interinale) e 110 mila prestatori di opera occasionali, a cui occorre aggiungere i circa 650 mila collaboratori per avere un quadro complessivo –anche se non aggiornato- del mondo del lavoro atipico in Italia.
Una ricerca dell’Irer del 2005 “Le politiche per la Casa: scenari e ipotesi strategiche”, calcola che il 21,46% del totale delle missioni di lavoro interinale hanno destinazione in una provincia diversa da quella di residenza. E la durata media della missione è poco superiore a 84 giorni, con una retribuzione media oraria pari a poco più di 8 €.
Utilizzando la base dati Manpower, una recente ricerca ha calcolato che quasi il 40% dei lavoratori interinali meridionali sono interessati da fenomeni di mobilità a lungo raggio. Al contempo, tale mobilità interessa soltanto tra il 2/4% dei lavoratori con residenza nelle regioni settentrionali.
Rilevante notare che circa un quinto dei casi di rifiuto dell’avviamento proposto sia dovuto alla lontananza della missione. È ragionevole chiedersi se parte di questi rifiuti abbiano motivazioni economiche che potrebbero venire meno in presenza di politiche per la casa che offrano sistemazioni abitative temporanee.
casa e mercato del lavoro
Il recente Rapporto annuale dell’Istat su La situazione del Paese nel 2006 ci mostra l’esistenza di un differenziale geografico tra distribuzione geografica della popolazione e dislocazione delle localizzazioni produttive. Tale differenziale genera un “gradiente” che è alla base degli spostamenti di residenza, soprattutto di quelli di lungo raggio.
Negli spostamenti a più breve raggio[1] prevalgono infatti motivi legati alla ricerca della vicinanza tra luogo di residenza e luogo di lavoro e alle diverse fasi del ciclo di vita individuale e familiare (uscita dalla famiglia d’origine, matrimonio, nascite sono tutti eventi che possono indurre alla ricerca di una nuova casa). Gli spostamenti a medio raggio[2], invece, possono essere motivati dalla necessità di allontanarsi dai centri urbani, soprattutto per fattori legati al minore costo delle abitazioni e all’ambiente (“fuga dalla città”).
Negli spostamenti a più lungo raggio[3], infine, entrano in gioco le condizioni del mercato del lavoro nella zona d’origine e in quella di destinazione (aver trovato lavoro, o sperare di trovarlo, in un luogo diverso da quello di residenza) e dunque, in ultima istanza, la forza relativa della struttura produttiva e la sua capacità d’attrazione (o di repulsione) dei flussi migratori interni.
L’analisi presentata dall’Istat corrobora l’ipotesi che le condizioni del mercato del lavoro –e specificamente la quota degli addetti alle unità locali sulla popolazione in età lavorativa, una proxy del tasso di occupazione– e, di conseguenza, le opportunità occupazionali e la solidità della struttura produttiva siano i fattori discriminanti, sia nel determinare la maggiore o minore capacità di attrarre flussi, sia nell’indirizzare la componente interna della mobilità, soprattutto di lungo raggio.
Sotto questo profilo, le aree del Paese dove il settore manifatturiero occupa una posizione predominante nel tessuto produttivo, soprattutto nell’ambito dell’industria leggera e del cosiddetto made in Italy hanno un ruolo trainante nella geografia delle migrazioni interne.
Il movimento migratorio interno, in calo nella prima metà degli anni Novanta, ha ripreso a crescere a partire dal 1995: tra quell’anno e il 2004, il numero complessivo di trasferimenti di residenza tra i comuni italiani è passato da 1,1 a 1,3 milioni di residenti, con un incremento del 18,1%. Nella media 2002-2004 i trasferimenti annui sono un milione 250 mila e sono suddivisi in:
· spostamenti a corto raggio, che rappresentano il 46% del totale e coinvolgono nella media del triennio 575 mila cambi di residenza all’anno;
· spostamenti a medio raggio, che riguardano complessivamente 345 mila trasferimenti (di cui 201 mila intraprovinciali e 144 mila intraregionali) e rappresentano il 27,7% del totale (rispettivamente 16,1 e 11,5%);
· spostamenti a lungo raggio, che constano di 330 mila cambi di residenza, il 26,4% del totale.
In questo quadro, il Mezzogiorno si conferma quale area di origine dei flussi e presenta nel 2004 un saldo migratorio ancora marcatamente negativo (circa 56 mila unità).
Rispetto al modello “classico” delle migrazioni interne italiane del secondo dopoguerra, emergono alcune significative differenze: se il Mezzogiorno continua a rappresentare la principale area di origine dei flussi migratori di lunga distanza, nelle regioni nord-orientali vi è stato, però, un guadagno netto di popolazione residente proveniente da tutte le altre zone del Paese, comprese le altre regioni del Nord.
Il Nord-ovest, rispetto ai fenomeni migratori del dopoguerra, pur caratterizzato da saldi migratori positivi nei confronti di Sud e Isole, registra una cessione netta di popolazione a vantaggio sia del Nord-est sia del Centro.
I trasferimenti di residenza, soprattutto a lungo raggio, allorché vengono riferiti alla geografia dei sistemi locali del lavoro, evidenziano la correlazione diretta del fenomeno con struttura produttiva dei territori. Inoltre, in questo quadro, i sistemi più caratteristici del modello di sviluppo locale seguito in Italia, soprattutto dalla seconda metà degli anni Settanta, continuano a esprimere una forte capacità d’attrazione sui flussi migratori interni.
I sistemi locali del lavoro in cui il saldo migratorio è positivo si collocano geograficamente soprattutto in Toscana, Lombardia ed Emilia-Romagna: in quest’ultima si concentra il più elevato numero di sistemi ad alta capacità d’attrazione, lungo tutto il confine regionale settentrionale e la riviera romagnola. In generale, esprimono saldi positivi le fasce costiere, sul versante adriatico fino all’Abruzzo e su quello tirrenico soprattutto in Toscana.
I sistemi con saldo migratorio negativo sono invece per lo più meridionali (in 127 casi su 140) e investono soprattutto le aree interne.
Intorno ad alcuni grandi centri –soprattutto Milano, Torino, Roma, Verona e Bologna– anche alla scala dei sistemi locali si possono osservare sia il fenomeno, già segnalato, della “fuga dalla città”, sia quello, più generale della periurbanizzazione: i sistemi della corona attraggono flussi di popolazione sia dalla “città” sia da altre aree più distanti.
Sotto il profilo della specializzazione funzionale, i sistemi turistici presentano un saldo positivo, per quanto più del 70% di quelli del Sud e più della metà di quelli del Nord-est cedano popolazione. In questo gruppo, sono ben 11 (su un totale di 29 sistemi locali) i sistemi caratterizzati da elevate intensità del saldo migratorio (tra 58,5 e 56,3 per 10 mila abitanti): in Trentino-Alto Adige, Veneto, Liguria, Toscana e Sardegna.
Tutti i gruppi di sistemi locali del cosiddetto made in Italy presentano un saldo migratorio positivo, con alcune rilevanti differenze: quelli della fabbricazione di macchine, dell’agro-alimentare e del legno e mobili mostrano la maggiore capacità d’attrazione, mentre quelli legati ai settori di specializzazione tradizionale (abbigliamento, tessile, calzature, pelli e cuoio) ne sono dotati in misura minore. In questo gruppo, sono ben 137 (su 257 SSL italiani) i sistemi locali localizzati prevalentemente nell’area Nord-est-centro con specializzazioni produttive riconducibili al made in Italy che presentano una capacità d’attrazione più moderata, con saldi migratori compresi tra 37 e 29 per diecimila abitanti.
[1] L’Istat considera trasferimenti di residenza a corto raggio quelli che intervengono all’interno del medesimo sistema locale del lavoro.
[2] Per spostamenti a medio raggio si intendono quelli che intervengono tra due sistemi locali all’interno della medesima provincia e anche quelli che intervengono tra province della stessa regione.
[3] Gli spostamenti tra sistemi locali di regioni diverse sono definiti dall’Istat come spostamenti a lungo raggio.
Negli spostamenti a più breve raggio[1] prevalgono infatti motivi legati alla ricerca della vicinanza tra luogo di residenza e luogo di lavoro e alle diverse fasi del ciclo di vita individuale e familiare (uscita dalla famiglia d’origine, matrimonio, nascite sono tutti eventi che possono indurre alla ricerca di una nuova casa). Gli spostamenti a medio raggio[2], invece, possono essere motivati dalla necessità di allontanarsi dai centri urbani, soprattutto per fattori legati al minore costo delle abitazioni e all’ambiente (“fuga dalla città”).
Negli spostamenti a più lungo raggio[3], infine, entrano in gioco le condizioni del mercato del lavoro nella zona d’origine e in quella di destinazione (aver trovato lavoro, o sperare di trovarlo, in un luogo diverso da quello di residenza) e dunque, in ultima istanza, la forza relativa della struttura produttiva e la sua capacità d’attrazione (o di repulsione) dei flussi migratori interni.
L’analisi presentata dall’Istat corrobora l’ipotesi che le condizioni del mercato del lavoro –e specificamente la quota degli addetti alle unità locali sulla popolazione in età lavorativa, una proxy del tasso di occupazione– e, di conseguenza, le opportunità occupazionali e la solidità della struttura produttiva siano i fattori discriminanti, sia nel determinare la maggiore o minore capacità di attrarre flussi, sia nell’indirizzare la componente interna della mobilità, soprattutto di lungo raggio.
Sotto questo profilo, le aree del Paese dove il settore manifatturiero occupa una posizione predominante nel tessuto produttivo, soprattutto nell’ambito dell’industria leggera e del cosiddetto made in Italy hanno un ruolo trainante nella geografia delle migrazioni interne.
Il movimento migratorio interno, in calo nella prima metà degli anni Novanta, ha ripreso a crescere a partire dal 1995: tra quell’anno e il 2004, il numero complessivo di trasferimenti di residenza tra i comuni italiani è passato da 1,1 a 1,3 milioni di residenti, con un incremento del 18,1%. Nella media 2002-2004 i trasferimenti annui sono un milione 250 mila e sono suddivisi in:
· spostamenti a corto raggio, che rappresentano il 46% del totale e coinvolgono nella media del triennio 575 mila cambi di residenza all’anno;
· spostamenti a medio raggio, che riguardano complessivamente 345 mila trasferimenti (di cui 201 mila intraprovinciali e 144 mila intraregionali) e rappresentano il 27,7% del totale (rispettivamente 16,1 e 11,5%);
· spostamenti a lungo raggio, che constano di 330 mila cambi di residenza, il 26,4% del totale.
In questo quadro, il Mezzogiorno si conferma quale area di origine dei flussi e presenta nel 2004 un saldo migratorio ancora marcatamente negativo (circa 56 mila unità).
Rispetto al modello “classico” delle migrazioni interne italiane del secondo dopoguerra, emergono alcune significative differenze: se il Mezzogiorno continua a rappresentare la principale area di origine dei flussi migratori di lunga distanza, nelle regioni nord-orientali vi è stato, però, un guadagno netto di popolazione residente proveniente da tutte le altre zone del Paese, comprese le altre regioni del Nord.
Il Nord-ovest, rispetto ai fenomeni migratori del dopoguerra, pur caratterizzato da saldi migratori positivi nei confronti di Sud e Isole, registra una cessione netta di popolazione a vantaggio sia del Nord-est sia del Centro.
I trasferimenti di residenza, soprattutto a lungo raggio, allorché vengono riferiti alla geografia dei sistemi locali del lavoro, evidenziano la correlazione diretta del fenomeno con struttura produttiva dei territori. Inoltre, in questo quadro, i sistemi più caratteristici del modello di sviluppo locale seguito in Italia, soprattutto dalla seconda metà degli anni Settanta, continuano a esprimere una forte capacità d’attrazione sui flussi migratori interni.
I sistemi locali del lavoro in cui il saldo migratorio è positivo si collocano geograficamente soprattutto in Toscana, Lombardia ed Emilia-Romagna: in quest’ultima si concentra il più elevato numero di sistemi ad alta capacità d’attrazione, lungo tutto il confine regionale settentrionale e la riviera romagnola. In generale, esprimono saldi positivi le fasce costiere, sul versante adriatico fino all’Abruzzo e su quello tirrenico soprattutto in Toscana.
I sistemi con saldo migratorio negativo sono invece per lo più meridionali (in 127 casi su 140) e investono soprattutto le aree interne.
Intorno ad alcuni grandi centri –soprattutto Milano, Torino, Roma, Verona e Bologna– anche alla scala dei sistemi locali si possono osservare sia il fenomeno, già segnalato, della “fuga dalla città”, sia quello, più generale della periurbanizzazione: i sistemi della corona attraggono flussi di popolazione sia dalla “città” sia da altre aree più distanti.
Sotto il profilo della specializzazione funzionale, i sistemi turistici presentano un saldo positivo, per quanto più del 70% di quelli del Sud e più della metà di quelli del Nord-est cedano popolazione. In questo gruppo, sono ben 11 (su un totale di 29 sistemi locali) i sistemi caratterizzati da elevate intensità del saldo migratorio (tra 58,5 e 56,3 per 10 mila abitanti): in Trentino-Alto Adige, Veneto, Liguria, Toscana e Sardegna.
Tutti i gruppi di sistemi locali del cosiddetto made in Italy presentano un saldo migratorio positivo, con alcune rilevanti differenze: quelli della fabbricazione di macchine, dell’agro-alimentare e del legno e mobili mostrano la maggiore capacità d’attrazione, mentre quelli legati ai settori di specializzazione tradizionale (abbigliamento, tessile, calzature, pelli e cuoio) ne sono dotati in misura minore. In questo gruppo, sono ben 137 (su 257 SSL italiani) i sistemi locali localizzati prevalentemente nell’area Nord-est-centro con specializzazioni produttive riconducibili al made in Italy che presentano una capacità d’attrazione più moderata, con saldi migratori compresi tra 37 e 29 per diecimila abitanti.
[1] L’Istat considera trasferimenti di residenza a corto raggio quelli che intervengono all’interno del medesimo sistema locale del lavoro.
[2] Per spostamenti a medio raggio si intendono quelli che intervengono tra due sistemi locali all’interno della medesima provincia e anche quelli che intervengono tra province della stessa regione.
[3] Gli spostamenti tra sistemi locali di regioni diverse sono definiti dall’Istat come spostamenti a lungo raggio.
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