lunedì 14 dicembre 2009

spazio, involucro, luce

Leggo una riflessione di David Chipperfield sullo spazio e sul metodo di progett che merita di essere appuntata per la chiarezza e la sintesi.

«Costruire lo spazio è il motivo primo, la prima responsabilità, il primo problema. Lo spazio genera la forma e la pianta. La pianta non è l’entità generatrice del progetto, ma è piuttosto il diagramma di un’idea spaziale. […] Tale tema organizzativo dell’organismo non può essere disgiunto dalla modellazione della luce naturale. [...] Quando ci siamo protetti dal mondo esterno, costruendo un involucro e uno spazio intorno a noi che ridefinisce il nostro orizzonte, possiamo, per gradi e con crescente sicurezza, iniziare a erodere la solidità del nostro rifugio. Nel mio operare sono interessato a questa semplice equazione architettonica: la creazione di un involucro, dunque di un luogo, tramite la definizione di limiti da un lato, dall’altro l’erosione del luogo, la sua liberazione verso una condizione di naturalità. [...] La luce naturale è, evidentemente, fondamento di tale processo. Il nostro lavoro riguarda i metodi per comprendere e controllare la qualità della luce. E’ nostra intenzione trattare la luce come un materiale, renderla parte della concezione, elemento generatore piuttosto che gradevole conseguenza»



mercoledì 9 dicembre 2009

la cornice all'imprevedibile movimento della vita quotidiana

Sul numero monografico di Abitare dedicato a Renzo Piano, Stefano Boeri intervistando Piano ne sintetizza il pensiero progettuale come meglio non avevo mai visto fare.
"... c'è un gesto compositivo ricorrente anche in opere molto lontane nel tempo: qualcosa che ha a che vedere con un principio di sollevamento del terreno. Un gesto tettonico, anche di una certa semplicità, che genera aeroporti, musei, luoghi pubblici. (...) Molti dei tuoi progetti si presentano in ultima analisi come architetture nate da un gesto di distacco antigravitazionale della superficie di copertura da quella di calpestio. Il vuoto che resta, lo spessore tra le due superfici, liberato da griglie troppo fitte di pilastri, ospita i luoghi dell'abitare. (...) E' l'idea dell'architettura come arte per sollevare immense superfici di suolo, sotto le quali lasciare fluire l'imprevedibile movimento della vita quotidiana (...)".
E' proprio questa tensione verso una sorta di espressionismo sociale che mi ha sempre interessato, da Mies Van der Rohe in avanti.

venerdì 20 novembre 2009

...ma non era tutta colpa dei subprime?

La notizia non è nuova o, quantomeno, era scontata. Però quando a una tesi vengono accoppiati un pò di numeri, diventa tutto più chiaro e credibile.
Ancora da Marco Sarli (qui) che puntualmente dà la bussola della crisi (immobiliare) in atto: "I dati della Mortgage Bankers Association illustrano inoltre un fenomeno davvero preoccupante, in quanto ad andare in default non sono più i sottoscrittori di mutui subprime, passati dal 35% del terzo trimestre 2008 al 16% attuale sul totale dei mututari in ritardo nei pagamento o in foreclosure, ma bensì coloro che hanno sottoscritto mutui a tasso fisso e con un buon score creditizio, passati dal 21 al 33%, ma è parimenti preoccupante il balzo al 18% del totale di quanti hanno almeno una rata insoluta anche i mutui assistiti da garanzia della Federal Housing Administration."

mercoledì 18 novembre 2009

Vince ancora Las Vegas

Con una certa puntualità, il blog di Marco Sarli sforna qui un pò di dati buoni sull'andamento del mercato immobiliare USA, quale proxy dell'andamento del ciclo economico e quale strumento previsivo rispetto alle tendenze future.
Oggi leggo la triste graduatoria dei delinquencies mortgage resa nota dalla TransUnion, un agenzia che dispone di un data base con ben 27 milioni di posizioni. Ecco i numeri e le posizioni:
1) Nevada: 14,4% (era del 7,7% nel terzo trimestre del 2008);
2) Florida: 13,3% (7,8% l’anno scorso);
3) Arizona: 10,4% (5,5% sempre nel terzo trimestre 2008);
4) California: 10,2% (5,8% nel 3° trimestre 2008).




mercoledì 11 novembre 2009

bolla immobiliare e architetti

Nelle analisi della bolla immobiliare è la prima volta che si valuta anche il ruolo dei progettisti (o, meglio, delle archistar). Massimo Mucchetti sul Corriere, letto qui (via qui).

"La bolla edilizia non è un affare da furbetti del quartierino. E’ la conseguenza della privatizzazione non dichiarata dell’urbanistica.... La crisi ha pesato, ma soprattutto ha fatto emergere l’eccesso di ottimismo con il quale si è valutata la domanda potenziale.... Il do ut des è semplice: più volumetria il comune dà e più servizi riceve dal costruttore oltre a quanto dovuto per legge. Soffocati dai tagli alla finanza pubblica, gli enti locali hanno ceduto alla tentazione di molto concedere.... Conta di più la promessa, peraltro revocabile, della Rai di trasferire la sede milanese da corso Sempione che non l'analisi delle tendenze demografiche e migratorie.... le star dell'architettura, immemori dell’urbanistica, firmano e tacciono sulla sostenibilità dei progetti."

test

Ecco la colonna vincente del test che ho distribuito oggi:
1 - B
2 - B
3 - C
4 - A
5 - B
6 - A
7 - C
8 - A
9 - B
10 - C
11 - C
12 - B
13 - B
14 - B
15 - C
16 - B
17 - A
18 - B
19 - C
20 - C
21 - A
22 - B
23 - B
24 - B
25 - A
26 - A
27 - C
28 - C
29 - B
30 - B
31 - C
32 - A
33 - B
34 - C
35 - B
36 - C
37 - B
38 - A
39 - A
40 - B

lunedì 2 novembre 2009

intervista

In qualche caso mi sono cimentato con un'intervista. Questa volta a me stesso... Che fatica. E che fatica ad annotare sul blogghetto un pò di pensieri.

Quali difficoltà state incontrando nel promuovere progetti incentrati sulla sostenibilità energetica e ambientale?
Il settore edilizio è un ambito abbastanza impermeabile all’innovazione: gli operatori spesso remano contro, perché non trovano così normale essere controllati sulla qualità. In molti ambienti del comparto edilizio non si è capito che è l’ora di nuovi prodotti. Esperienze pilota come CasaClima di Bolzano ci dicono che il mercato immobiliare vuole discernere tra promesse e verità, chiede alcune garanzie precise in termini di qualità energetica e di risparmio. E il progettista ha un ruolo decisivo: è il primo responsabile nella diffusione della cultura del miglior utilizzo dell’energia e delle soluzioni eco-compatibili. Può diventare l’unico interlocutore tecnico e indipendente sulle questioni energetiche dell’abitare così da superare la situazione attuale, nella quale una famiglia o un’impresa è costretta a chiedere pareri e consulenze a tecnici diversi, dal costruttore al caldaista, dall’esperto di impianti a quello dei serramenti.

Volendo fare l’avvocato del diavolo si potrebbe dire che c’è molta filosofia nella vostra impostazione del progetto.
E sarebbe un errore, perché la nostra è una strategia progettuale applicata concretamente a ogni scelta. Il progetto è fatto con un’attenzione mirata al risparmio, all’ottimizzazione nell’uso dell’energia e alla durabilità dei materiali da costruzione: le scelte sono misurate per ottenere un risparmio tangibile sui costi energetici, oltre a una riduzione dei costi di manutenzione. In una casa termicamemte isolata, il costo annuale del riscaldamento è quasi 1/10 del costo ordinario: è come ritrovarsi ogni anno una quattordicesima mensilità in più.
Recentemente, tre piccole strutture ricettive che stiamo seguendo hanno deciso di rinnovare sul fronte del riscaldamento invernale, al fine di ridurre le spese di gestione: ne sono venuti fuori isolamenti “a cappotto”, impianti solari termici, pompe di calore e impianti fotovoltaici, caldaie a pellets. Il risparmio che un edificio eco-compatibile garantisce è assolutamente reale e basta che si diffonda la sua conoscenza per essere richiesto, quasi preteso da ogni committente.


Spesso però si sostiene che le soluzioni nello stile di CasaClima costano molto care.
Chi ha scelto in questi anni la strada del risparmio energetico in edilizia lo ha fatto soprattutto perché ha constatato un evidente vantaggio economico. In due recenti ampliamenti di edifici scolastici (a Pontedassio e Pieve di Teco), ove sono previsti isolamenti termici spessi più di 20 cm, il costo di costruzione non supera i 265 €/mc. Costi non dissimili rispetto all’ordinarietà ma soprattutto sopportabili guardando ai vantaggi che per anni un Comune potrà incamerare in termini di bolletta più leggera.
Allo stesso modo, soprattutto laddove vi è una saturazione del mercato immobiliare, poter offrire una casa con una qualità energetica certificata rappresenta un grande valore aggiunto che incide sulle chances di vendita.


Nei vostri progetti ci consigliate di tornare ai modi costruttivi di un tempo oppure di proiettarci nell’era dell’informatica?
Il nostro approccio non vuole semplificare a ogni costo, offrendo risposte esclusivamente razionali a un problema come quello dell’abitare che ha anche un forte contenuto irrazionale: cioè l’immagine e l’emozione del nostro habitat. La questione energetica non può tradursi solo in doppi vetri, cappotto esterno e caldaia a condensazione: l’aver trascurato per molto tempo, ad esempio, il rapporto col sole, la forma dell’edificio rispetto alla luce, è stato non solo uno spreco energetico ma anche un ignorare il contenuto emozionale più profondo dell’abitare.
Il nostro metodo non è imporre soluzioni precostituite ma rendere possibile ciò che la gente cerca e avrebbe sempre voluto: cerchiamo di accompagnare le iniziative degli abitanti i quali tendono “naturalmente” a ricivilizzare l’habitat a propria immagine e alla loro portata. Partendo da questi concetti, anche sulla scorta dell’importante esperienza di 4 anni di Progettazione partecipata nelle scuole a San Bartolomeo al mare (nel 2001 è stata segnalata quale best practice nell’ambito dell’iniziativa nazionale Città Sostenibili delle bambine e dei bambini), in alcuni progetti abbiamo innescato processi di architettura partecipata, nel tentativo di non “definire” ma “orientare” processi di integrazione con la natura e cercando un equilibrio tra tradizione e innovazione costruttiva e formale. Ogni casa curata da noi è diversa, perché ogni committente ha una diversa storia diversa da raccontare: la sua.
In questo contesto, per essere preso in considerazione il progettista non è più costretto ad assumere arie d’artista, non dovrà necessariamente praticare gesta eroiche per ritagliarsi uno spazio. Potrà tranquillamente rifarsi agli antichi artigiani i quali non erano altro che designer lenti.



Cosa intendete per costruzione tradizionale?
Il problema è reagire alla percezione che il nuovo sia meglio per definizione, nuovo che ci ha rubato la memoria: da come si fa l’intonaco al significato dei marcapiani e delle cornici che scandiscono le facciate, dalle ragioni dell’acustica al significato dei colori, fino al rapporto con l’ambiente.
Il costruire tradizionale si pratica attraverso la ripetizione e l'imitazione di un numero limitato di tipi costruttivi e funzionali che bastano per contenere ed esprimere le attività umane fondamentali. La preoccupazione non è esprimere lo spirito dell'epoca ma piuttosto uno spirito che trascende le epoche.
Se guardiamo indietro, ci interessa molto l’approccio dell'Art Déco perché la riteniamo cosmopolita e allo stesso tempo regionalista. Senza la pretesa di rifare il mondo, l'architettura Art Déco ha recuperato equilibri classici e planimetrie tradizionali per realizzare rinnovate scenografie e straordinari spazi interni. Ma soprattutto ha chiamato attorno a sé tutte le arti applicate (fabbri, mosaicisti, artisti vetrai, ecc.), le ha collocate nella loro giusta posizione e le ha integrate nella costruzione in modo tale che l'edilizia elevasse la propria qualità.

sabato 26 settembre 2009

Londra: un ex città globale?

Quando una delle più importanti delle tue banche iniziano a trasferire il management, vuol dire che il tuo futuro sarà molto diverso da quello di oggi.

Da qui non so dire quale sarà il futuro di Londra ma è più che possibile che la City si andrà svuotando. Come si riciclano i grattacieli non mi è noto... però a Genova nel "Matitone" c'è andata una parte della sede comunale.



(ph. tratta da http://www.flickr.com/photos/mintball/1463022515/)

venerdì 21 agosto 2009

foreclosures in the USA

Ancora qualche aggiornamento da Marco Sarli (qui) sulla crisi del mercato immobiliare negli USA.
Si conferma, in primo luogo, che il problema non è negli Stati Uniti quale realtà immobiliare isotropa ma che in realtà la crisi dei mutui (e del mercato) si concentra in 4 Stati: "...è tuttavia impressionante che il 44 per cento delle procedure di esproprio non solo si concentrino in quattro Stati (Florida, California, Nevada e Arizona), (...), una situazione che consente agevolmente di comprendere come mai (...) il prezzo mediano delle case sia sceso di oltre il cinquanta per cento, sino a livelli che superano davvero di pochissimo la spesa media sostenuta dalle banche per la procedura e che si aggira intorno ai 50 mila dollari!"
Ulteriore conferma, inoltre, è quella relativa al fatto che i mutuatari colpiti non sono tanto quelli subprima, quanto la famiglia media. "...la maggior parte dei mutui per i quali si registrano ritardi nei pagamenti o addirittura già entrati nella procedura che porta all’esproprio e alla successiva vendita all’asta dell’immobile sono mutui normali e a tasso fisso, quelli normalmente erogati solo a clientela con un buon punteggio sotto il profilo del merito creditizio, una tipologia di mutuo non caratterizzata dalle ‘trappole’ connesse a quei subprime o a quegli ARM che vedevano spesso moltiplicato l’importo della rata alla scadere del periodo biennale o triennale di grazia. A essere colpiti, dunque, non sono più soltanto mutuatari caratterizzati da uno ‘score’ basso o bassissimo (...) ma appartenenti alla classe media o alla cosiddetta aristocrazia operaia dell’industria automobilistica o di altri settori a forte sindacalizzazione,..."

martedì 21 luglio 2009

la società dei proprietari e la crisi

Spigolatura sulle conseguenze inintenzionali di dieci anni di politica della casa negli USA di Pietro Monsurrò letta ieri qui.

"Il boom partito alla metà degli anni ‘90 (erano i tempi della società dei proprietari) ha provocato un aumento della proprietà immobiliare tra gli americani: se prima il 64% degli americani aveva una casa di proprietà, poco prima della crisi era salito al 69%."
Attualmente la crisi in atto ha già fatto scendere il tasso di diffusione della proprietà al 67,3% e, visto i chiari di luna, è lecito aspettarsi che ancora un bel pò di famiglie dovranno lasciare la "loro" casa perchè insolventi.
"In ogni caso, un aumento del 5% (ora 3%) dell’homeownership è costato moltissimo: la creazione di un sistema finanziario instabile, un indebitamento estero da repubblica delle banane, il dirottamento dei pochi fondi disponibili dall’industria verso servizi finanziari dal dubbio valore reale e verso un settore immobiliare evidentemente ipertrofico da anni (con conseguente depauperamento del settore secondario, o sua esportazione all’estero), un aumento incredibile dell’indebitamento dei privati, e un’improvvisa - anche se prevedibilissima - contrazione dello stato patrimoniale degli americani, che si erge minacciosa come una spada di Damocle sul futuro dei baby boomers pensionandi."

(ph. tratta da http://www.flickr.com/photos/mischiru/2494421586/)

lunedì 6 luglio 2009

Piano Casa e urbanizzazioni all'emiliana

In controtendenza con quanto dicevo qui, la recente legge regionale emiliana apre un'ipotesi di lavoro per gli EE.LL. nel caso di interventi di demolizione e ricostruzione.
Due i concetti: la ricostruzione non avviene in sito e il soggetto attuatore si impegna al ripristino ambientale (ma anche alla realizzazione di urbanizzazioni) delle aree ove si trova l'attuale edificio incongruo.
Nel dettaglio, la quota massima dell’ampliamento ammissibile è del 50 per cento per la demolizione di edifici residenziali che il piano classifica incongrui o da delocalizzare o di edifici non assoggettati a interventi di restauro o risanamento conservativo qualora la ricostruzione avvenga al di fuori delle medesime aree, in ambiti destinati dalla pianificazione urbanistica all’edificazione residenziale e il soggetto interessato si impegni, previa stipula di apposita convenzione, al ripristino ambientale delle aree di pertinenza dell’edificio originario e al trasferimento delle stesse nel patrimonio indisponibile del Comune.

domenica 5 luglio 2009

anche NY viene giù

Ancora da Marco Sarli mi arriva l'aggiornamento dal meltdown immobiliare statunitense in corso da oltre tre anni: si manifesta il primo sensibile calo delle quotazioni nella città di New York, località che aveva sinora resistito abbastanza bene rispetto al resto degli USA. Il calo delle quotazioni è tra il 13 e il 19% che, considerato congiuntamente al calo delle transazioni immobiliari, pari al 50% rispetto a quelle realizzate nell’anno precedente, fa abbastanza bene intendere che la crisi non sia affatto alle spalle. Infatti, sul fronte immobiliare si assiste a uno scenario peggiore di quelli assunti quale riferimento per gli stress tests cui il sistema della riserva federale ha sottoposto le prime diciannove banche e assicurazioni operanti nel mercato finanziario statunitense. Da qui non è così impossibile ipotizzare un aumento dei non performing loans per le banche. Non solo USA.

giovedì 2 luglio 2009

Piano Casa: e le strutture extraalberghiere?

L'attuazione regionale del Piano Casa, quale attuazione dell'intesa tra Stato-Regioni ed Enti Locali del 31 marzo 2009, si focalizza sugli ampliamenti di edifici esistenti o sulla demolizione e successiva ricostruzione di edifici incongrui o in stato di degrado.
Questi edifici, tra i vincoli suscettibili di essere posti dal legislatore, dovranno avere destinazione d'uso residenziale. Ma nel quadro giuridico esistente, nell'ambito della destinazione d'uso urbanisticamente intesa della residenza, sono ricomprese non solo le case di civile abitazione e le residenze collettive quali, ad esempio, i presidi socio-assistenziali (Residenza Protetta, Residenza Servita, ecc.) ma anche le strutture turistico-ricettive extraalberghiere: le Case e Appartamenti per Vacanza (CAV), le Case per ferie, fino agli agriturismi. Cioè quell'insieme di funzioni che interessano il patrimonio immobiliare riconducibile alla residenza e che non determinano mutamento di destinazione urbanistica rispetto a quest'ultima.
Le agevolazioni del Piano Casa si applicano anche a questi edifici?

lunedì 29 giugno 2009

Piano Casa: e le dotazioni urbanizzative?

Un ulteriore tema particolarmente critico, a riguardo della legislazione regionale riferita al Piano Casa, è dato dalla presumibile rinuncia a stabilire un qualsivolgia rapporto tra deroghe volumetriche concesse e previsioni urbanizzative. Rinuncia attesa non solo nei casi di ampliamento degli edifici esistenti, quanto anche in quelli molto più incidenti sotto il profilo urbanistico della demolizione e successiva ricostruzione con premio del 35%.

Si tratta non certo di una novità ma, in realtà, dell'espressione di una tendenza che arriva da lontano ed è alimentata dalla sostanziale sfiducia negli esiti prodotti dall’applicazione delle norme sui rapporti tra densità edificatorie e spazi pubblici.

In ogni caso, però, l'attuazione del Piano Casa implica un aumento delle densità territoriali. Aumento delle densità che si attende proprio nelle parti urbane meno strutturate, ove le dotazioni urbanizzative sono più incerte.
Di conseguenza, l'attuazione regionale del Piano Casa tende a spostare l'onere dell'attrezzatura di spazi pubblici a servizio delle nuove volumetrie in là nel tempo. E, di fatto, l'onere viene a essere trasferito alla fiscalità generale. Cioè a tutti i cittadini.
Nel caso della legge lombarda, ad esempio, tutto ciò viene anche esplicitato: l’articolo 5, comma 5 del provvedimento, demanda proprio ai Comuni di “verificare l’eventuale ulteriore fabbisogno di aree pubbliche e servizi” indotto dall'attuazione del Piano Casa.

Proprio il caso lombardo, però, potrebbe suggerire un compromesso possibile. Compromesso che accetta la logica dell'impianto del Piano Casa.

La Regione Lombardia ha da tempo introdotto il principio del cosiddetto “standard qualitativo” nell'ambito dei PII che, di fatto, implica la cessione di minori aree pubbliche rispetto a quelle prescritte dagli strumenti urbanistici vigenti a fronte di oneri urbanizzativi per opere pubbliche in qualche misura superiori a quelli normalmente vigenti).
In altri termini, il rapporto pubblico-privato non agisce sull'incremento delle dotazioni urbanizzative attraverso la riserva di aree per standard urbanistici ma viene indirizzato sulla manutenzione delle precarie urbanizzazioni esistenti, ad esempio attraverso prelievi "ad hoc" aggiuntivi agli oneri concessori ordinari oppure, nel caso delle demolizioni e ricostruzioni, anche attraverso la realizzazione diretta da parte del soggetto attuatore di opere di urbanizzazione extraoneri.

(ph. tratta da http://www.flickr.com/photos/progettomondo-mlal/3389031869/)

Piano Casa: e i rapporti con gli SUA in itinere?

Ogni legislazione riferita al cosiddetto Piano Casa si trova di fronte il tema tutt'altro che agevole, uno tra i tanti, del rapporto tra le nuove previsioni in deroga e gli Strumenti Urbanistici Attuativi in itinere oppure soltanto obbligatoriamente previsti.
Nei casi in cui uno strumento Urbanistico Generale prevede obbligatoriamente il rinvio allo Strumento Urbanistico Attuativo per rendere operative le proprie previsioni, ad esempio per incentivare interventi di ristrutturazione urbanistica, il Piano Casa attribuisce indifferentemente le proprie concessioni derogatorie. Di fatto, rendendo più difficile il processo di riqualificazione urbana prefigurato in sede di pianificazione generale.
Inoltre, come si applicheranno norme di questa natura in ambiti disciplinati da piani attuativi vigenti, magari in parte già attuati, che vedranno modificare il proprio assetto planivolumetrico e incrementare il carico urbanistico?
E in ambiti disciplinati da piani attuativi da formare, caratterizzati da edifici già dismessi, per i quali lo Strumento Urbanistico Generale ammette il mutamento di destinazione d’uso?

domenica 28 giugno 2009

Piano Casa: e l'edilizia residenziale sociale?

Sempre in riferimento all'attuazione del Piano Casa, merita ancora qualche considerazione a partire dalla originaria Intesa Governo-Regioni del 31 marzo 2009.

La “valorizzazione” e “qualificazione” del patrimonio edilizio esistente del Piano Casa del Governo Berlusconi trovavano giustificazioni, peraltro generiche, per attribuire le deroghe a qualsiasi regola urbanistica non solo nel miglioramento della “qualità architettonica” e di quella energetica, nonché nella riqualificazione di aree urbane degradate, quanto anche nella ricerca di soluzioni per l’edilizia residenziale pubblica al fine di “soddisfare il fabbisogno delle famiglie o particolari categorie, che si trovano nella condizione di più alto disagio sociale e che hanno difficoltà ad accedere al libero mercato della abitazione”.

Nei provvedimenti di legge che mi è capitato di leggere, il riferimento al soddisfacimento del fabbisogno abitativo si è proprio perso.

Mi sembra che l'unica eccezione sia il piano casa lombardo, all'interno del quale le finalità di ordine sociale sono previste all’articolo 4 del progetto di legge. Il comma 1 di questo articolo prevede che i proprietari di immobili di ERP hanno diritto a un premio volumetrico non superiore al 40% della volumetria esistente per produrre nuova offerta abitativa sociale.

Dato che nel caso dell’ERP, l'intervento diretto degli enti proprietari rimane comunque condizionato alla allocazione di risorse pubbliche straordinarie, non potrebbe essere l'occasione per promuovere nuove priorità per quanto attiene agli interventi di social housing?



(ph. tratta da http://www.flickr.com/photos/runningforasthma/263047832/)

Piano Casa: e la riqualificazione urbana?

La legislazione regionale in attuazione dell'Intesa Stato-Regioni riferita al cosiddetto "Piano Casa" ha l'opportunità di promuovere la cosiddetta rottamazione degli edifici incongrui o in stato di degrado attraverso la concessione di un premio volumetrico del 35%.

Sul punto, si tratta di comprendere se considerare ordinario l'intervento di demolizione e successiva ricostruzione in sito. E, di conseguenza, soltanto laddove tale condizione non sia oggettivamente possibile, la ricostruzione possa avvenire su altre aree ritenute più idonee.

Quest'ultima situazione, sia nei casi di edifici incongrui per ragioni paesistiche sia ancor più nei casi di edifici obsoleti che si trovano all'interno di tessuti saturi o quasi (che non sono proprio un'eccezione), dovrebbe essere invece la norma. Infatti, con la demolizione si possono liberare importanti risorse in termini di suolo libero, in punti delle città e del territorio che ne sono scarsi. Suoli resi liberi che potranno essere utilizzati quali importanti momenti di riqualificazione urbanistica, sia con nuove funzone di servizio private sia con nuove opere di urbanizzazione a servizio di parti urbane che le richiamano.

L'ipotesi di procedere alla demolizione e successiva ricostruzione in sito riesce al più a promuovere la riqualificazione architettonica. Rinuncia, invece, alla riqualificazione più urgente che, viceversa, è quella urbanistica. Tralascio le differenti ricadute in termini di ricadute complessive.

(ph. tratta da http://www.flickr.com/photos/monkeyiron/367271228/)

Piano Casa: e la qualità archiettonica?

Anche dalle mie parti, coma in altre Regioni, si sta predisponendo il provvedimento di attuazione del “Piano casa” che ha origine dall’intesa del 31 Marzo 2009 raggiunta nella Conferenza Stato-Regioni ed Enti Locali promossa dal Governo.
Da quella data, alcune Regioni hanno provveduto a legiferare (è il caso della Regione Toscana) oppure hanno avviato l'iter di formazione della legge (ad esempio, la Regione Lombardia). Di conseguenza, si possono fare alcune considerazioni pur nell'incertezza della formulazione finale del provvedimento anche ponendosi in relazione con l'operato di altri.

In primo luogo, è opportuno richiamare le finalità e i contenuti dell’intesa Stato-Regioni per verificare se il progetto di legge regionale li riprenda in modo più o meno coerente.
Si tratta, come è noto, di un intervento che si propone il “rilancio dell’economia” allo scopo di “rispondere anche ai bisogni abitativi delle famiglie” introducendo “incisive misure di semplificazioni procedurali dell’attività edilizia”.
In vista di queste finalità, l’intesa Stato-Regione-Enti Locali si è attestata sui contenuti seguenti: a) interventi di ampliamento della volumetria esistente, entro limiti definiti, ai fini di migliorare “la qualità architettonica e/o energetica degli edifici”;
b) consentire interventi straordinari di “demolizione e ricostruzione di edifici residenziali con ampliamento sino al 35%”: anche qui con finalità “di miglioramento della qualità architettonica, dell’efficienza energetica e dell’uso di fonti energetiche rinnovabili“;
c) introdurre forme semplificate di procedure.

La declinazione operativa della qualità architettonica sembra essere limitata, da un lato, all'adeguamento degli edifici esistenti alle norme antisismiche in vigore dal 30 giugno 2009, e dall'altro, all'utilizzo di materiali locali, in primo luogo delle lastre di ardesia quale materiale di copertura. Peraltro, tali aspetti qualitativi costituiscono specifici requisiti per ottenere ulteriori premialità volumetriche.

Si rileva che la “valorizzazione” e “qualificazione” del patrimonio edilizio esistente sembrano aver perso per strada anche quelle finalità di miglioramento complessivo che –per quanto generiche– secondo l’accordo Stato-Regione-Enti Locali giustificavano gli interventi di deroga a qualsiasi regola urbanistica. In altri termini, le eccedenze volumetriche base che sarebbero concesse dalla legge non sono legate al perseguimento di alcun requisito qualitativo che, viceversa, era posto alla base dell'Intesa di cui sopra.

Quasi vent'anni di applicazione della disciplina paesistica di livello puntuale potrebbero suggerire una possibile declinazione operativa del generale assunto alla "qualità architettonica". Oppure, si deve pensare che la ricerca di qualità architettonica sia obiettivo per nulla oggettivabile, quasi che non ci sia una ricerca disciplinare "a monte".

(ph. tratta da http://www.flickr.com/photos/contramowly/536985629/)

Guardando un pò in giro, si comprende come la ricerca della qualità architettonica sia soprattutto incentrata sulla riqualificazione energetica. Forse è un pò ingiusto per l'attività del progettare, però è già qualcosa.

Ad esempio, la Regione Toscana ha interpretato che la "qualità architettonica" debba passare attraverso l'utilizzo di tecniche costruttive di edilizia sostenibile che, segnatamente attraverso l'impiego di impianti alimentati da fonti energetiche rinnovabili, sappiano garantire prestazioni energetiche almeno il 20% migliori rispetto a quelle fissate attualmente per legge (cfr. articolo 3, comma 4). Al contempo, per gli interventi di demolizione e successiva ricostruzione con ampliamento volumetrico, tali prestazioni energetiche devono essere migliorative del 50% di quelle attualmente prescritte per quanto attiene la climatizzazione invernale (cfr. articolo 4, comma 7, lett. a) mentre, relativamente al raffrescamento estivo, il fabbisogno dell'edificio nuovo dovrà essere inferiore a 30 Kwh/mq x anno (cfr. articolo 4, comma 7, lett. b).

Anche la Regione Lombardia ha ritenuto di ricercare una rinnovata "qualità architettonica" nel miglioramento delle prestazioni energetiche degli edifici esistenti. All'articolo 3, comma 2 del PDL, si fissa che l'ampliamento volumetrico base è condizionato alla diminuzione del 10% del fabbisogno annuo di energia primaria per la climatizzazione invernale dell'edificio esistente. Anche in questo caso, per la demolizione e successiva ricostruzione la diminuzione del fabbisogno energetico è posto almeno pari al 30% (cfr. articolo 3, comma 3). Inoltre, nel caso di interventi che per almeno il 25% della superficie del lotto siano interessati da un'elevazione dell'equipaggiamento arboreo, scatta un'ulteriore premialità (cfr. articolo 3, comma 6).

martedì 19 maggio 2009

per capire un pò di più le aspettative dei cittadini

Da qualche tempo sono tornato sulle proposte del cosiddetto New Urbanism. Sicuramente la strategia progettuale neo-tradizionalista coglie un problema reale (e comune a molte discipline): il dissidio e la poca comunicazione tra il sapere disciplinare e le aspettative del cittadino.

La lettura di un paper un pò datato ma utile (An Assessment of New Urbanist Elements in “New Suburbanist” Communities of the Twin Cities, Minnesota - qui uno stralcio) è un buon punto di partenza per fare un pò di chiarezza.

A - Elementi comuni New Urbanism dei centri “neo suburbani” realizzati

priorità 1
- alberature stradali
- strisce a verde
- verande sul fronte
- varietà degli stili delle abitazioni
- parcheggi a bordo strada
- un centro di quartiere
- attraversamenti pedonali
- scuole entro un raggio di dieci minuti a piedi

priorità 2
- scuole all’interno del complesso
- marciapiedi ampi
- prati da gioco
elementi assenti
- negozi interni al quartiere
- negozi raggiungibili a piedi
- piste ciclabili
- giardini comuni


(ph. tratta da http://www.flickr.com/photos/90586790@N00/2554264985/)

B - Elementi New Urbanist che attirano i residenti nei centri “neo suburbani”

priorità 1
- stili tradizionali per le abitazioni
- abbondanza di spazi a parco
- scuole raggiungibili a piedi

priorità 2
- dimensione delle case
- sistemi di marciapiede-percorsi pedonali
poco apprezzati
- fermate del trasporto pubblico
- disponibilità di un sistema intranet per condividere gli avvenimenti locali

lunedì 18 maggio 2009

dei diversi modi di intendere le politiche abitative

Qualche settimana fa mi è capitato di dover raffrontare un programma per la casa regionale con un altro modo di intendere l’intervento pubblico nel settore abitativo: quello del Piano Casa del Governo.

Il PQR della Regione Liguria si configura quale strumento di intervento programmatorio di tipo marcatamente sociale. Nel senso che, di fronte alla crisi economica, si mette dalla parte del segmento di società che con (molte) difficoltà riesce attualmente a risolvere un proprio bisogno primario: quello della casa. E cioè, rispetto alla totalità delle famiglie liguri, si dedica espressamente a poco più di 25.500 nuclei familiari. Cioè a quel 5% scarso che ha i maggiori problemi.

Il cosiddetto Piano Casa del Governo, per quello che si sta delineando nel rapporto Stato-Regioni, sarà un provvedimento che invece avrà efficacia soprattutto sul patrimonio residenziale mono e bifamiliare, ovvero si rivolgerà a poco più di 155.000 famiglie liguri che già abitano nella propria casa di proprietà che ha quelle specifiche caratteristiche.
Più che un Piano per offrire una casa a chi non ne ha una, sarà invece un Piano che non solo premierà quei nuclei familiari che hanno già la casa ma premierà –attraverso la possibilità di un aumento straordinario e una tantum della volumetria del 20%- proprio quel 22% scarso di famiglie che hanno case già grandi, cioè le case mono o bifamiliari. Insomma, è un po’ come dire che il Piano Casa farà “piovere sul bagnato”.

Questa pioggia di metri cubi potenziali -analogamente a come ha già dimostrato qui Federico Dalla Puppa per il Veneto- si può stimare che in Liguria, da oggi fino al 2011, potrebbe riguardare circa il 10% degli edifici mono e bifamiliari (tanto per fare un paragone, rispetto all’ultimo dato Istat disponibile -anno 2006-, in Liguria sono stati ultimati in un anno 585 edifici mono e bifamiliari), ovvero poco più di 15.000 abitazioni, con una produzione aggiuntiva valutabile in più di 1,5 milioni di metri cubi e un giro d’affari di oltre 600 milioni di euro. Cifre comunque importanti.

Non è il caso di porsi il problema se è di questo che il settore delle costruzioni ha bisogno. Quello che però è il caso di dire è che il Piano Casa del Governo non risolverà la domanda alla quale invece la Liguria (solo la Liguria?) deve guardare con più attenzione e sensibilità: cioè la domanda di qualità della vita che proviene da chi oggi non ha le condizioni economiche e sociali per permettersi una casa e da chi vive, quindi, in condizioni di disagio abitativo. Cioè la domanda originata dalle famiglie di nuova costituzione (in primo luogo i giovani), da quelle che hanno avuto lo sfratto, da quelle che si sono trasferite da poco nella nostra regione per motivo di lavoro, da chi vive in condizione di disagio perché si trova costretto ad abitare in situazione di sovraffollamento, da chi è in lista di attesa per una casa di ERP, dagli studenti. In questo senso non è che in Liguria non servano case: anzi è vero il contrario.
In Liguria servono invece alloggi a canone moderato; serve una differente politica di intervento pubblico che realizzi in modo diffuso interventi edilizi destinati al social housing, alla domanda del ceto medio e medio-basso, con piani di investimento e rientro finanziario a lungo termine, e con una politica degli affitti in grado di calmierare il mercato.

Rispetto a questo obiettivo, il PQR programma un investimento pubblico di circa 162 milioni di euro, di cui ben 51 a favore dell’Edilizia Residenziale Sociale, 41 milioni per il sostegno all’affitto (FSA) e circa 16 milioni per favorire l’accesso alla casa in proprietà alle nuove famiglie liguri. Finanziamento pubblico in grado di attivare un complesso di investimenti fino al 2011 quantificabili in almeno 300 milioni di euro, attraverso la realizzazione o il recupero di circa 3.000 unità abitative e la riqualificazione di alcune significative porzioni di città.
Cifre altrettanto importanti rispetto al Piano Casa del Governo: solo molto più canalizzate dove c’è bisogno.

sabato 16 maggio 2009

qual è la soglia efficiente di alloggi in affitto rispetto a quelli in proprietà?

Qualche tempo fa mi era stato chiesto quale quota di alloggi in affitto rispetto al complessivo stock edilizio occupato si può traguardare quale obiettivo di una politica abitativa.
Seppur la questione non è particolarmente modaiola, mi sembra che possa meritare un appunto.

La risposta migliore, a parte dire che non esiste un solo numero, mi pare debba essere ricercata nei rapporti tra quota di alloggi in affitto e performance dei sistemi economici, segnatamente per quanto riguarda la disponibilità di offerta di lavoro.

La tesi è che una certa mobilità geografica dei lavoratori può influenzare i meccanismi di aggiustamento del mercato del lavoro, nel senso che una ridotta mobilità geografica può ostacolare i processi di riequilibrio delle disparità regionali esistenti nei tassi di occupazione e disoccupazione.
E la mobilità geografica è ostacolata da tanti fattori. Ma -ed è un dato di fatto- la propensione a cambiare residenza geografica è relativamente più bassa per chi è proprietario della propria abitazione rispetto a chi è semplicemente in affitto a causa dei maggiori costi di transazione insiti nel cambiare un’abitazione di proprietà e per il rischio connesso di perdite in conto capitale.
Non casualmente, nel momento in cui scrivevo la risposta, arrivava la notizia del dato riferito alla mobilità geografica USA: il più basso degli ultimi quarant’anni. Il motivo è evidente: vendere la propria casa quando i prezzi degli immobili sono crollati significa vendere a un prezzo molto inferiore rispetto a quello di acquisto.

Una volta individuata la tesi, occorre metterci qualche numero, dato che la domanda posta implica l'individuazione di una soglia obiettivo.

Iniziamo a partire da un’evidenza empirica: nel contesto europeo, l’Italia si caratterizza per un grado piuttosto basso di mobilità geografica interna. Secondo i dati Ocse in mio possesso (purtroppo risalgono al 2003) solo lo 0,6% della popolazione di età compresa fra i 15 e i 64 anni risulta aver cambiato regione di residenza nel corso dell’anno, rispetto all’1,4% della Germania, al 2,1% della Francia, al 2,3% del Regno Unito. Più in generale, il grado di mobilità geografica fra le diverse regioni di uno stesso paese risulta mediamente più basso in Europa rispetto agli Stati Uniti (che è poco sopra il 3%).

Per quanto riguarda il legame fra situazione del mercato immobiliare e performance del mercato del lavoro, un report BCE di qualche anno fa trova una interessante correlazione positiva fra tasso di disoccupazione e grado di diffusione delle abitazioni in proprietà per i principali paesi europei. Qui per approfondire.
Emerge un gruppo di Stati un po’ più virtuoso che registra -non casualmente- un’incidenza della proprietà che non supera il 60% dello stock edilizio. L’Italia, ad oggi, è poco sopra l’80%.

La riduzione dell’incidenza delle abitazioni in affitto sul totale, peraltro, è una tendenza che si è registrata anche negli altri paesi europei. Tuttavia, la riduzione è stata più accentuata in Italia che nella media dei paesi europei, e la quota di abitazioni in affitto è -come ormai tutti sanno- tra le più basse in Europa. In Europa, infatti, solo Spagna, Ungheria e Slovenia registrano una quota di patrimonio immobiliare in affitto più bassa che in Italia. A fronte del 18,6% italiano, la quota di patrimonio immobiliare in affitto risulta pari al 60% in Germania, tra il 40 ed il 50% in Austria, Danimarca, Francia, Olanda e Svezia e sopra il 30% in Gran Bretagna.

Conseguentemente, si può ritenere che la quota efficiente di offerta di alloggi in affitto, rispetto al totale delle abitazioni, non dovrebbe essere molto al di sotto del 40%. Rispetto alle condizioni attuali è un numero enorme: significa raddoppiare il comparto in affitto. Peraltro, in Italia tale situazione si è già verificata: negli anni ’70.
Da quel momento, una precisa politica pubblica -non sempre, infatti, le cose succedono per caso- ha spinto molto sul versante della proprietà. Tra le altre cose, ha significato eliminare la base di consenso dell’ex PCI. Un conto, infatti, è rivolgersi a un operaio o a un impiegato che vive in affitto: quella famiglia rimane sempre una famiglia operaia o impiegatizia. Tutt’altro conto è, invece, rivolgersi alla stessa famiglia che diventa proprietaria della propria casa: diventa una famiglia proprietaria. E muta completamente la sua identità sociale.

(ph - http://www.flickr.com/photos/lorensand/528467309/)

venerdì 15 maggio 2009

risposte del test

Ecco la colonna vincente del test che discuteremo lunedì sera:

1 - B
2 - B
3 - C
4 - A
5 - B
6 - A
7 - C
8 - A
9 - B
10 - C
11 - C
12 - B
13 - B
14 - B
15 - C
16 - B
17 - A
18 - B
19 - C
20 - C
21 - A
22 - B
23 - B
24 - B
25 - A
26 - A
27 - C
28 - C
29 - B
30 - B
31 - C
32 - A
33 - B
34 - C
35 - B
36 - C
37 - B
38 - A
39 - A
40 - B

martedì 17 marzo 2009

del premio di cubatura

Leggo e sottoscrivo. Da Franco La Cecla su Repubblica (via Eddyburg).

"Oggi in Italia c’è bisogno di demolire molto e di ricostruire con materiali e tecniche innovative. La provincia di Bolzano lo ha capito e offre un "premio" di cubatura del 3,5% in più (non trenta!) a chi si fa una casa che rientri nelle alte graduatorie di efficienza energetica."

giovedì 12 marzo 2009

riqualificazione urbana o incrementalismo?

Pietro Pagliardini (qui) nota come il disegno di legge governativo relativo al cosiddetto "Piano Casa" ha anche del buono. La tesi è che si potrebbe aprire una fase in cui "poter ridefinire i limiti della città, poter ridare un’immagine compatta e leggibile alla città nel suo complesso, riuscire a distinguere tra città e campagna potrebbe essere possibile con il metodo della demolizione e della ricostruzione con un disegno urbano appena decente e (...) orientato all’urbanistica della strada e dell’isolato, della connessione e delle reti."
Mi pare molto condivisibile, infatti, orientare le politiche urbane verso quella fascia di "non città" compresa tra il nucleo urbano più duro del centro e la campagna. E' proprio qui dove è opportuno concentrare le migliori energie, anche finanziarie.

Nello stesso momento, Stefano Boeri (qui) evidenzia che lo stesso disegno di legge risponde a tre diverse idee: "la prima è di proporre una mobilitazione delle risorse individuali di migliaia di famiglie e piccoli proprietari capace di arginare la crisi e di trasmettere una scossa al sistema delle imprese edili italiane. La seconda è di esautorare le burocrazie delle amministrazioni locali, responsabilizzando al loro posto un’intera categoria professionale, quella degli architetti e degli ingegneri. La terza è di legare questa mobilitazione individualista all’opportunità di rinnovare anche dal punto di vista della sostenibilità ambientale uno stock edilizio ormai desueto e divoratore di energia."
Soprattutto la terza mi sembra una delle poche strade percorribili per riqualificare lo stock immobiliare italiano dal punto di vista energetico. Senza qualche incentivo, infatti, l'idea è destinata a rimanere lettera morta.

Ma allora il problema dove sta?
Se la proposta di legge risponde alla logica di Boeri, quello che propone Pagliardini non è raggiungibile. La scala del capitale (e quindi dell'intervento edilizio) a cui sembrerebbe rivolgersi il Governo non è quella più opportuna per provare a ridisegnare i limiti della città. Non si riesce a incidere sulla qualità dello spazio pubblico e sul disegno urbano con una logica di accrescimento di tipo incrementale. Gli interlocutori mi sembrano radicalmente differenti.

paesaggio: forma vs. struttura

Articolo di Adriano La Regina su Rep. (edizione di Roma) segnalato da Eddyburg relativo a una proposta di legge regionale (Regione Lazio) che affronta il delicato -ma sempre molto attuale- tema del mantenimento delle caratteristiche, degli elementi costitutivi e della morfologia del paesaggio agrario.
Il provvedimento consentirà alla Regione Lazio di individuare sulla base del Codice dei beni culturali e del paesaggio le zone agricole da sottoporre a tutela. All’interno delle aree così delimitate saranno ammessi solamente interventi per lo svolgimento delle attività rurali, per la conservazione degli aspetti storici, paesaggistici, naturalistici, e per la difesa del suolo. Ma vediamo il ragionamento di La Regina.

Che è da condividere parola per parola. "Per quanto concerne la tutela del paesaggio la proposta è straordinariamente innovativa. Le leggi finora approvate, a partire da quella del 1939 sulla protezione delle bellezze naturali, si sono rivelate inefficaci. Basta guardarsi intorno per constatare cos’è avvenuto in molte delle località più belle d’Italia. Un fallimento così generalizzato, anche laddove più attenta è stata l’azione di controllo, rivela carenze normative ben precise. Si è infatti finora ritenuto che per tutelare i caratteri formali di un luogo, ossia ciò che definiamo "paesaggio", fosse sufficiente intervenire con provvedimenti di natura meramente formale. La "forma" nel suo grado di maggior pregio, la "bellezza", è stata intesa come categoria autonoma, difendibile in se stessa mediante norme che ne imponessero la conservazione. L’attività degli uffici preposti alla tutela del paesaggio si è di solito così risolta nella formulazione di prescrizioni riguardanti la qualità degli interventi senza alcuna considerazione per le alterazioni strutturali, quali ad esempio la destinazione d’uso. Ha stentato insomma ad affermarsi, riguardo alla nostra concezione di paesaggio, la consapevolezza del nesso tra forma e struttura. L’aspetto dei luoghi è infatti il riflesso dei modi d’uso del suolo. Questo è il motivo per cui la conservazione e la ricostituzione di un paesaggio si possono ottenere non altrimenti che mediante il mantenimento e il ripristino delle attività che lo avevano determinato."



(ph. tratta da http://www.flickr.com/photos/21033263@N06/2078094921)

venerdì 27 febbraio 2009

le nuove proposte di legge urbanistica: questa volta è quella buona???

Su Eddyburg, Paolo Berdini fa un'analisi delle proposte di legge per il governo del territorio attualmente agli atti parlamentari.
Merita evidenziare alcuni capisaldi del ragionamento che, di fatto, può anche essere considerato un indice per ogni discussione.

L’impianto culturale che sorregge le quattro proposte poggia su due convinzioni:
a) che il futuro del territorio possa essere delineato con il concorso della proprietà immobiliare;
b) che si possa fare a meno della fondamentale disciplina sugli standard urbanistici che, come noto, riconosceva esteso sull’intero territorio nazionale il diritto alla quantità minima di spazi per servizi pubblici e verde. In questo senso, i quattro progetti di legge abrogano l’istituto delle dotazioni minime estese all’intero territorio nazionale, sostituendolo con la possibilità che ogni regione definisca le proprie.

Vediamo il grande assente.
Il fenomeno unificante delle trasformazioni territoriali degli ultimi due decenni è stato senz’altro il consumo di suolo: mi sembra, onestamente, affermazione incontestabile. Nessuna delle tre proposte parlamentari affronta efficacemente la questione.
Curioso, poi, che a fronte di questa assenza particolarmemte rumorosa, sia presente il concetto della “valorizzazione dell’ambiente”. Ma il controllo del consumo di suolo, in quanto risorsa finita e non sostituibile, non è un classico tema ambientale?

Infine, veniamo agli strumenti che vengono introdotti dalle nuove proposte legislative.
A) Permane il concetto della concorrenzialità. Si sostiene che il piano strutturale può contenere alternative da sottoporre a procedura concorrenziale in sede di piano esecutivo: il futuro delle città può essere deciso sulla base di alternative proposte dagli operatori immobiliari.
B) Sono molto presenti gli istituti della compensazione e premialità. A parte ogni altra valutazione, mi sembra di particolare interesse (nel senso che è meglio approfondirselo) allorché viene prevista la compensazione anche nei confronti “dei vincoli ablativi di edificabilità” con cui, di fatto, sembra superarsi l’impianto vincolistico accettato dalle stesse sentenze della Corte costituzionale: anche i vincoli paesaggistici devono essere “compensati”.

martedì 24 febbraio 2009

politiche abitative: domande e risposte

Mi è capitato di rispondere a qualche domanda in materia di politiche abitative. E' stata l'occasione per scrivere, un pò di getto, alcune riflessioni che somigliano, per certi aspetti, quasi a un bilancio. Almeno per me.
1) Come è cambiato o sta cambiando il fabbisogno abitativo di ers in Liguria negli ultimi anni?

Il bisogno di casa sociale è aumentato non certo dopo la crisi che è in atto ma ha radici più antiche. Almeno quanto il boom immobiliare che è appena scoppiato. Infatti, l’aumento vertiginoso delle quotazioni immobiliari (sia negli affitti sia negli acquisti) ha via via messo fuori mercato sempre più famiglie che, secondo i modi di intendere tradizionali, non sono proprio indigenti.
Il fabbisogno pregresso stimato dal nuovo PQR è pari a circa 23.000 alloggi che unitamente a quello ipotizzabile nell’immediato futuro (fino al 2011) porta la richiesta di ERS in tutta la Liguria a più di 25.500 alloggi. Un numero enorme che equivale a più di un raddoppio dell’offerta di casa sociale.
Dentro questo numero aggregato c’è un po’ di tutto, anche se più della metà sono famiglie con ISEE inferiore a 8.000 euro, cioè quelle per cui il disagio abitativo si fa particolarmente grave. Al contempo, però, sono presenti anche famiglie con ISEE pari a circa 12/14.000 euro, cioè nuclei familiari che hanno redditi annuali anche superiori a 20/25.000 euro. Ed è proprio questo uno degli effetti del recente boom immobiliare: l’ex ceto medio rischia di cadere in una situazione di difficoltà nell’accesso al servizio di base: la propria casa.


2) Se la riduzione del disagio abitativo è una responsabilità che compete alle istituzioni pubbliche, sembra ormai impensabile che il pubblico possa farcela da solo. Sbaglio? E' giusto coinvolgere i soggetti privati? Come? E con quali incentivi?

E’ del tutto evidente che con le risorse statali disponibili il soddisfacimento del bisogno di casa stimato non può che essere parziale. Non c’è molto da girarci intorno.
Ed è altrettanto evidente che l’intervento pubblico della tradizione, cioè quello impostato sull’impiego di risorse pubbliche per la realizzazione di alloggi popolari (cioè di ERP) è assolutamente fuori luogo. Ipotizzando di utilizzare le risorse statali e regionali programmate, e in parte già allocate, del PQR per produrre soltanto ERP aggiuntiva, è già un buon risultato realizzare circa 1.500 nuovi alloggi. Che sono anche tanti ma, e questa è una certezza, sono anche tanto insufficienti.
Di conseguenza, la strada è quella di mettere in campo un set piuttosto ampio di strumenti, in modo tale da approntare specifici interventi per ogni specifica tipologia di domanda: la dotazione territoriale obbligatoria di casa sociale (ERP) per le trasformazioni urbanistiche introdotta dalla lr 38/07; il canone moderato quale risposta più sostenibile per rispondere al bisogno di casa attraverso la produzione di nuova offerta abitativa; il sostegno all’immissione nel mercato dell’affitto di edifici esistenti attraverso gli strumenti dell’Agenzia sociale per la Casa e il Fondo di garanzia per l’affitto; il sostegno diffuso ai redditi delle famiglie in affitto attraverso il Fondo Sociale per l’Affitto; il sostegno all’acquisto e/o alla costruzione (o autocostruzione) della prima casa per i nuclei familiari più giovani; ecc.
Al contempo, per poter effettivamente operare, molti di questi strumenti devono essere aderenti alle logiche che governano la produzione di offerta abitativa. Che sono essenzialmente le regole del mercato: da quello del credito a quello immobiliare, da quello degli affitti a quello degli appalti.
Quindi, se si parla di logiche di mercato, il privato è senz’altro un interlocutore. Ma lo possono (e devono) essere anche le agenzie pubbliche che operano nel settore delle politiche abitative, quali ad esempio le ARTE, oppure i soggetti (anche privati) che operano in assenza di profitto o con profitti contenuti.
Il tema degli incentivi è evidente che sia centrale ma, in questa risposta, vorrei concentrarmi più sugli obblighi. Nel senso che uno degli assunti di fondo delle nuove politiche abitative (e della lr 38/07 che le ha profondamente innovate) è ricercare un rapporto più stretto con il governo del territorio. Cioè con l’urbanistica.
Per troppo tempo quest’ultima ha assunto quale suo orizzonte di senso la ricerca o la tutela del bello. Ma ha lasciato per strada, nel senso che si è dimenticata, dei problemi classici del governo del territorio: la difficoltà di avere una casa, la difficoltà di spostarsi in città e tra le città, la difficoltà di incontrasi in città (attualmente declinabile quale problema di insicurezza).
E’ bene non dimenticare che le trasformazioni immobiliari non costituiscono un diritto naturale ma sono semplicemente il risultato di una scelta operata dalla Pubblica Amministrazione che ne consente il dispiegarsi. E la stessa scelta pubblica dovrebbe porsi il problema di allocare ai responsabili delle disfunzioni urbane il costo della correzione di tali disfunzioni e non scaricare sull’insieme della collettività tali costi. In definitiva, se un intervento urbanistico genera una maggiore richiesta di opere di urbanizzazione in termini di parcheggi, reti tecnologiche, parchi urbani, … e determina il permanere di livelli di prezzo degli immobili che “tagliano fuori” quota parte della popolazione residente alla ricerca di una sistemazione abitativa, quello stesso intervento urbanistico è chiamato a farsene carico (in tutto o in parte). Secondo questa logica, la lr 38/07 ha fatto sì che le trasformazioni più rilevanti debbano contenere al loro interno anche una quota (ovviamente contenuta) di edilizia sociale.


3) Che cos'è l'agenzia sociale per la casa e quando partirà?

L’agenzia sociale per la casa non è nient’altro che un’agenzia immobiliare che si occupa di affitto e, in particolare, di affitto a canone moderato o a canone concordato. Perché? Uno dei problemi più rilevanti che inducono i proprietari di immobili a non affittare il proprio alloggio è dovuto ai rischi che un rapporto di affitto genera: morosità, mancata riconsegna dell’alloggio alla fine del rapporto, danni arrecati all’immobile durante il periodo locativo. Al fine di superare queste diffidenze, è stata pensata la realizzazione di una serie di agenzie pubbliche (o pubblico-privata) che dovranno farsi da garante nei confronti della proprietà. Maggiori garanzie che vengono bilanciate da una riduzione dei canoni di locazione che, quindi, dovranno essere ben inferiori a quelli di mercato.
Il bilancio della Regione Liguria prevede già per l’anno 2009 la somma di 1 milione di euro che sarà necessario per attivare una rete di 6 Agenzia sociali in altrettanti ambiti della Liguria.


4) I fondi messi a disposizione dal dl 159/2007 sono tutt'ora bloccati. Quanti dei 550 milioni erano destinati alla Liguria? E quando arriveranno?

Alla Liguria vennero destinati poco più di 18,5 milioni di euro, di cui circa il 60% solo a Genova. Il nuovo governo ha preferito ritornare indietro, di fatto annullando tutto. Quando arriveranno proprio non lo so: ormai da molti mesi è in corso un “braccio di ferro” tra Stato e Regioni per salvare quanto più possibile del “Programma straordinario” che aveva quale migliore sua qualità quella di avere interventi immediatamente cantierabili. E intanto sono passati quasi due anni e non è non si è visto quasi un cantiere.


5) Come giudica il piano casa del governo, anche alla luce degli "ammorbidimenti" che sembrano esserci stati nell'ultima versione del disegno di legge? Quali sono i punti critici, se ci sono, e perché?

Più che di un “Piano Casa” che determina una discontinuità epocale riformulando l’intervento pubblico nel settore abitativo ci troviamo di fronte a un intervento pressoché ordinario. Con l’aggravante che sembra allargare il proprio raggio d’azione fino a identificare il proprio obiettivo nell’incremento del patrimonio immobiliare a uso abitativo prescindendo da ogni connotazione sociale.
La dichiarazione della carenza di abitazioni in Italia non mi sembra tale da legittimare un piano nazionale straordinario, dato che avviene al termine di uno dei più forti cicli di produzione residenziale in termini assoluti mai vissuti dall’Italia: basti considerare che dal 2004 al 2007 la produzione di nuovi alloggi per ogni anno è stata superiore alle 300 mila unità, cioè un livello di produzione che non si raggiungeva dai lontani anni ’70.
E questa genericità di finalizzazione dell’intervento pubblico è particolarmente critica in rapporto alle risorse stanziate. Che, al momento, sono sempre i soliti 550 milioni di euro. E il problema delle risorse è centrale. Basti considerare che anche un buon spunto contenuto nel “Piano Casa”, qual è quello relativo all’istituzione della rete dei Fondi Immobiliari, rischia di essere vanificato dalla pochezza dell’investimento pubblico. Prevedere solo 150 milioni di euro per tutta Italia al fine di costituire un Fondo Immobiliare significa ipotizzare uno strumento residuale, che è più piccolo della dimensione media (pari a 240 milioni di euro) degli altri Fondi Immobiliari aperti o chiusi che già operano sul mercato.


6) In generale, non le sembra che manchi un po' di progettualità a lungo termine sul problema casa? Si tenta di star dietro alle emergenze, ma si è sempre in ritardo...

Al contempo, però, di fronte a un’emergenza non si può rispondere nel lungo periodo. Rischio di non trovarci più nessuno. Comunque è vero che la progettualità è sostanzialmente assente. Ogni attore (pubblico o privato e di qualsivoglia livello di governo), al più, cerca di “strappare” il proprio pezzetto che è funzionale a garantire lo stato di fatto. E in queste situazioni la progettualità è difficile da dispiegare.

venerdì 13 febbraio 2009

un cannone per un fringuello

Non è nuova ma non è male (si fa sempre per dire).

La capitalizzazione di mercato di Citigroup, JPMorgan-Chase e Bank of America ammonta complessivamente a 158 miliardi di dollari, eppure il programma annunciato da Geithner è destinato a fornire (solo per iniziare) tra 250 e 500 miliardi di dollari solo per tentare di rimuovere dal bilancio delle banche le cartolarizzazioni tossiche.
Si fa prima a nazionalizzarle.

venerdì 30 gennaio 2009

42,25

42,25 $/oncia è il prezzo con cui l'FMI valuta l'orodel prezo attuale di mercato. Cioè 21 volte meno. Ed ecco che le Banche centrali con maggiori riserve auree hanno potenzialmente un carta importante da giocare.
Vi sono infatti plusvalenze potenziali importanti nei bilanci delle banche centrali per la parte aurea che potrebbero controbilanciare le minusvalenze che le banche centrali stesse hanno accumulato negli ultimi venti mesi acquistando titoli tossici.
L'Italia è messa bene come riserve auree. La Gran Bretagna e L'Olanda per niente, dato che l'oro lo hanno venduto negli anni passati.

giovedì 15 gennaio 2009

18%

Qui ottime notizie per iniziare la giornata.

Secondo uno studio di Merril Lynch -che certo non è la bibbia, però qualcosa vuol dire- oggi il mercato dei credit default swap su debito sovrano sta prezzando una probabilità del 18 per cento di un default della Grecia entro i prossimi cinque anni.
Per l’Irlanda siamo al 15 per cento, per l’Italia al 14. La Germania è al 4 per cento e il Regno Unito al 10 per cento.
Wow.


(tratta da http://www.flickr.com/photos/markop/239111580/)

Piano Casa: osservazioni

1 - Le finalità del piano: la determinazione dei livelli minimi essenziali e l’individuazione del target sociale
L’articolo11 del decreto legge 112, convertito in legge 133/08, al comma 1 si propone il perseguimento dei “livelli minimi essenziali di (soddisfacimento del) fabbisogno abitativo” provvedendo, a norma del successivo comma 2, all’incremento del patrimonio immobiliare a uso residenziale attraverso l’offerta di alloggi in affitto e in proprietà.
Il Piano quindi, in coerenza con la finalità enunciata nel comma 1 della legge 133/08, è tenuto alla definizione operativa dei livelli di fabbisogno, cioè dei livelli essenziali delle prestazioni che lo Stato è tenuto ad assicurare su tutto il territorio nazionale.
Lo schema di Piano, però, non contiene alcun elemento di questo genere, in quanto i dispositivi messi in atto dal Piano stesso attengono unicamente la sfera procedimentale.

Il ruolo che la legge istitutiva del Piano Casa -coerentemente con la giurisprudenza costituzionale riferita all’applicazione dell’articolo 117, comma 2, lett. m) della Costituzione- era il conferimento della mission di provvedere alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti il diritto all’abitazione da garantire su tutto il territorio nazionale. Almeno nell’ambito circoscritto dell’implementazione del Piano Casa stesso.
In questo senso, il Piano ha il compito di individuare le prestazioni e il relativo livello di erogazione che il Governo ritiene essenziale alla realizzazione del diritto all’abitazione da rendere esigibile su tutto il territorio nazionale e che è posto quale fondamento del Piano.

Tra le possibili definizioni di livello essenziale, lo Stato, almeno in altri settori dell’intervento pubblico, sembra optare per un approccio che intende l’individuazione dei livelli essenziali quali “diritti soggettivi esigibili”. In tale approccio, la determinazione delle prestazioni e del loro livello di erogazione non è funzione solo di una dimensione di natura etica ma è altresì rimandata alle reali disponibilità finanziarie, assumendo quindi un concetto di “esigibilità sostenibile”.
Di conseguenza, il Piano in parola deve prevedere uno specifico dispositivo normativo idoneo alla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni che dovrebbe avere le seguenti caratteristiche generali:
a) l’intervento normativo statale in materia di determinazione dei livelli essenziali di servizio abitativo deve individuare “prestazioni” e non sistemi organizzativi, che rappresentano il mezzo con cui operare per raggiungere il fine della garanzia della prestazione. L’individuazione delle modalità organizzative, degli standard da adottare per raggiungere l’obiettivo della garanzia delle prestazioni, restano viceversa in capo alla responsabilità del sistema Regione/Autonomie Locali, ciascuno per la propria competenza e livello di responsabilità, all'interno di un sistema di governance e di leale collaborazione istituzionale;
b) il tema della definizione dei livelli essenziali delle prestazioni va affrontato unitamente a quello delle risorse finanziarie necessarie a garantirli. L’individuazione dei livelli essenziali da parte dello Stato non può infatti prescindere dall’assunzione di responsabilità sul loro finanziamento che, nell’ambito del Piano in commento, è rappresentato dal contenuto dell’articolo 2;
c) il forte e ineludibile legame tra determinazione delle prestazioni ricomprese nei livelli essenziali da garantire in tutto il territorio nazionale e risorse economiche necessarie a finanziarle, con la necessità che vengano garantite a tutti coloro che rientrano nel target del bisogno/prestazione, fa sì che si debba necessariamente pensare a un sistema di definizione dei livelli graduale e progressivo, accompagnato da una costante azione di monitoraggio e verifica dell’impatto sull’intero sistema sociale, sia in termini finanziari sia organizzativi.

Le più gravi carenze del Piano per quanto attiene la definizione dei livelli essenziali attengono proprio il profilo dell’individuazione della condizione economica delle categorie svantaggiate individuate quali destinatarie degli alloggi. Sul punto, infatti, lo schema di decreto non affronta il problema del rendere operativa la sommaria elencazione di cui all’articolo 11, comma 2 della legge 133/08 che, a suo merito, ha avuto la capacità di cogliere con qualche efficacia la pluralità di bisogni che attualmente frammenta il fabbisogno abitativo. Lo svantaggio sociale resta connotato in modo generico e non viene neppure demandato alle regioni una più puntuale individuazione dei beneficiari degli interventi nel proprio territorio.

Tale vaghezza può essere anche interpretata come funzionale alle finalità implicite del Piano, il cui target sociale è individuabile, di fatto, in massima parte da un’area sociale costituita da soggetti che, seppure esposti al rischio abitativo, hanno comunque posizioni di vantaggio economico superiori a buona parte delle famiglie che popolano le graduatorie dell’Edilizia Residenziale Pubblica.
Nell’area sociale dell’housing individuato dal Piano si situano, infatti, soggetti in grado di sopportare prezzi di vendita o canoni di locazione calmierati o moderati ma, in ogni caso, sempre e comunque capaci di coprire i servizi del debito e gli oneri connessi alla realizzazione degli interventi attraverso il ricorso alla finanza di progetto. In questo senso, con la centralità assunta dal sistema dei Fondi immobiliari e dalle tecniche di promozione finanziaria che richiamano comunque un livello dei canoni almeno in grado di pagare il servizio del debito, il Piano sembra organizzare uno spostamento dell’area sociale di riferimento per le politiche pubbliche nel comparto dell’edilizia residenziale individuando un profilo sociale dei beneficiari riconducibile alla cosiddetta vulnerabilità abitativa o al disagio diffuso orientando la priorità di spesa e la missione del servizio in funzione delle esigenze di autofinanziamento degli interventi e della ricerca del minimo di redditività sostenibile.
Il punto di discussione è se, a prescindere da qualsivoglia orientamento precostituito pro o contro la tradizionale offerta di ERP, tale nuovo corso possa davvero nell’odierna congiuntura (sociale ed economica) garantire flussi d’offerta accessibile in quantità e proporzioni adeguate rispetto alle esigenze di efficacia sociale degli interventi che fanno capo al settore delle politiche abitative e, soprattutto, alla struttura attuale e all’evoluzione della domanda e alla specifiche caratteristiche del disagio abitativo. E sul punto è agevole rilevare che un’impostazione di questo genere trova ben pochi elementi di legittimazione nella struttura del bisogno di casa riscontrabile nelle diverse regioni italiane: in assenza di diverse determinazioni, l’offerta abitativa suscettibile di essere prodotta dal Piano andrebbe a beneficiare segmenti di società che, pur in disagio nell’accesso alle abitazioni, non rappresentano la parte di fabbisogno con maggiori criticità che, viceversa, si troverebbe sguarnita di qualsivoglia intervento pubblico.

Al fine di impostare una sostenibile identificazione dei livelli essenziali delle prestazioni in ottemperanza al disposto del comma 1 dell’articolo 11 della legge 133/08 e sulla base delle categorie sociali di cui alle lettere da a) a f) del comma 2 dello stesso articolo, sembra opportuno procedere al raggruppamento dei beneficiari potenziali degli interventi promossi dal Piano Casa in almeno due categorie generali, in ragione della diversa intensità della prestazione assistenziale da mettere in capo allo Stato nelle sue varie articolazioni:
a) area della povertà o della “non abbienza” per analogia con le tradizionali figure dell’edilizia sovvenzionata, riferita agli individui o ai nuclei familiari che, in assenza della fornitura di alloggi sociali, non sono in grado altrimenti di accedere all’abitazione primaria. A quest’area potrebbero far capo le fattispecie di cui alle lettere a) e c) del più volte citato comma 2 dell’articolo 11 della legge 133/08;
b) area della vulnerabilità, riferita invece agli individui o ai nuclei familiari che necessitano di agevolazioni pubbliche al fine di consentire l’accesso all’abitazione primaria. A quest’area, invece, potrebbero far capo le fattispecie di cui alle lettere b), d), e) e g) del più volte citato comma 2 dell’articolo 11 della legge 133/08.

Per quanto riguarda la qualificazione dei destinatari del Piano Casa relativamente all’area della povertà o della “non abbienza” e in funzione dei quali l’enucleazione del livello essenziale determina un diritto soggettivo all’abitazione effettivamente esigibile, in linea di prima approssimazione si ritiene opportuno assumere i requisiti individuati per la “carta acquisti” (la cosiddetta “social card”) (cfr. articolo 5 del decreto del Ministro dell’Economia del 16.09.2008), con la sola modifica riferita al non possesso di altra abitazione adeguata al nucleo familiare nella stessa regione di residenza.
Per quanto attiene, invece, la determinazione della caratteristiche soggettive dell’area della vulnerabilità, potrà costituire la base dell’architettura normativa il disposto di cui all’articolo 1 della legge 9/07, con le dovute modifiche e integrazioni in ragione delle peculiarità delle fattispecie considerate dal Piano Casa (ad es. limiti di età per la giovane coppia).


2 - Gli obiettivi del Piano
Anche sulla scorta di quanto appena argomentato, il Piano di cui allo schema di decreto in commento risulta particolarmente lacunoso sul fronte della predeterminazione degli obiettivi di riferimento del Piano stesso.
Il disposto di cui al comma 2 dell’articolo 11 della legge 133/08, tale da identificare l’incremento del patrimonio immobiliare a uso abitativo quale obiettivo generale del Piano, risulta infatti un po’ troppo generale. Soprattutto se si considera che la dichiarazione della carenza di abitazioni tale da legittimare un piano nazionale straordinario avviene al termine di uno dei più forti cicli di produzione residenziale in termini assoluti mai vissuti dall’Italia: basti considerare che dal 2004 al 2007 la produzione di nuovi alloggi per ogni anno è stata superiore alle 300 mila unità, cioè un livello di produzione che non si raggiungeva dai lontani anni ’70.

Al fine di conferire un orizzonte di senso al Piano in qualche modo coerente con le finalità dell’intervento pubblico nel settore abitativo, sembra opportuno, se non necessario, che il Piano stesso provveda a specificare l’obiettivo generale sopra ricordato nel modo seguente:
a) aumentare lo stock edilizio in locazione complessivamente disponibile e la sua articolazione interna, anche al fine di agevolare la mobilità delle famiglie che attualmente sono assegnatarie di alloggi di edilizia residenziale pubblica nonché di dare risposta all’esigenza di mobilità da lavoro o da studio sul territorio nazionale;
b) incrementare l’offerta in affitto a costi contenuti nonché a canoni sociali.


3 - Il riparto delle risorse finanziarie
A norma dell’articolo 11, comma 3 della legge 133/08, il Piano dovrebbe essere articolato sulla base di criteri oggettivi che tengano conto dell’effettivo bisogno abitativo presente nelle diverse realtà territoriali.
Lo schema di decreto ministeriale contenete il Piano, però, non presenta alcuna disposizione in merito alle modalità di ricognizione dell’effettivo bisogno abitativo presente nelle diverse realtà territoriali. E, al contempo, non sono presenti criteri che consentano di articolare lo stesso Piano –e i relativi interventi attuativi- verso le realtà territoriali che presentano le maggiori criticità del fabbisogno abitativo. Di conseguenza, gli esiti del Piano non risultano essere in nessun modo prevedibili ex ante ma, al più, soltanto una volta che i Programmi attuativi del Piano stesso sono stati approvati.
E’ necessario, quindi, che il Piano preveda tra i suoi contenuti normativi le modalità di ripartizione della dotazione finanziaria di cui all’articolo 2, comma 2, lett. b) e c) sulla base di indicatori riferiti al fabbisogno abittaivo.
Sul punto, le modalità annualmente utilizzate per la ripartizione di cui all’art. 11, comma 5 della legge 9 dicembre 1998, n. 431, come sostituito dall’art. 7, comma 1, del decreto-legge 13 settembre 2004, n. 240, convertito dalla legge 12 novembre 2004, n. 269 possono costituire un valido punto di partenza. Con i dovuti correttivi, sia alla luce dell’evoluzione della normativa relativa all’intervento pubblico nel settore abitativo sia in ragione delle finalità del Piano in parola.
In linea di prima approssimazione, la ripartizione delle disponibilità finanziarie potrà essere effettuata sulla base dei seguenti parametri e con riferimento all’incidenza percentuale relativa risultante:
a) indicatori relativi alla struttura socio-economica
· popolazione, di ciascuna regione o provincia autonoma, ricadente nei comuni di cui all’articolo 1, comma 1 della legge 9/07 in rapporto alla popolazione complessiva ricadente negli stessi comuni a livello nazionale (peso 10%);
· incidenza del numero di alloggi occupati in affitto da residenti sul totale della famiglie presenti in ciascuna regione o provincia autonoma rispetto al valore medio nazionale (ai fini della determinazione del coefficiente di riparto il valore è assunto in maniera inversamente proporzionale) (peso 25%)
· prodotto interno lordo (PIL) pro-capite di ciascuna regione rispetto al valore medio nazionale (ai fini della determinazione del coefficiente di riparto il valore è assunto in maniera inversamente proporzionale) (peso 10%);
· media del valore del fabbisogno regionale calcolato con riferimento all’art. 1, comma 1, lettera a), del decreto ministeriale 7 giugno 1999, concernente i requisiti minimi dei conduttori per beneficiari dei contributi integrativi a valere sulle risorse assegnate al Fondo nazionale di sostegno per l’accesso alle abitazioni in locazione, e desunto dai dati comunicati dalle regioni e province autonome con riferimento ai riparti delle ultime tre annualità (peso 25%);
b) indicatori relativi alle tipologie di destinatari di cui all’articolo 11, comma 2 della legge 133/08:
· ultrasessantacinquenni presenti in ciascuna regione rispetto al totale nazionale (peso 10%);
· extracomunitari presenti in ciascuna regione rispetto al totale nazionale (peso 10%);
· popolazione residente di età inferiore a 35 anni in ciascuna regione rispetto al totale nazionale (peso 10%)


4 - La settorialità delle politiche abitative: l’articolazione delle linee di intervento
Il comma 3, lett.e) dell’articolo 11 della legge 133/08, come ulteriormente specificato dal successivo comma 4, introduce una nuova tipologia di strumento attuativo: il Programma Integrato di Promozione di Edilizia Residenziale (anche sociale) e di Riqualificazione Urbana (PIPERRU).
Lo schema di decreto recante “Piano nazionale di edilizia abitativa” identifica all’articolo 1, comma 1, lett. e) tale nuovo strumento quale autonoma “linea di intervento” e sembra interpretare lo strumento quale nuova tipologia di programma urbano complesso, cioè il successore del PRU per alloggi a canone sostenibile.
La specificità dei PIPERRU rispetto alle altre linee di intervento è ulteriormente accentuata dal contenuto dell’articolo 3 dello schema di decreto. Se gli interventi di cui alle lettere b), c), d) ed f) dell’articolo 1 del Piano sono interventi strettamente appartenenti al campo delle politiche abitative in quanto interventi settoriali, i PIPERRU identificano degli interventi misti, tali da integrare gli interventi settoriali delle politiche abitative con altri interventi che perseguono obiettivi di riqualificazione urbana.

Sul punto, è opportuno rilevare come lo schema di decreto evidenzi ulteriormente il problema che viene dal combinarsi di elementi del nuovo paradigma delle politiche integrate con la tradizione delle politiche abitative sociali: il Piano Casa alimenta ancora la convinzione del carattere “urbano” delle politiche abitative tralasciando gli interrogativi su quale contributo le politiche urbane e di riqualificazione urbana possono dare al trattamento della povertà abitativa.
Naturalmente vi sono delle buone ragioni per orientare le politiche urbane verso la riqualificazione urbana: ma ciò non significa che si possano attribuire a queste politiche valenze abitative che, con ogni probabilità visti gli esiti pregressi, non possono avere. La questione abitativa in larga misura mantiene una sua specificità come questione sociale, indipendente da quella urbana. Anzi, la cosiddetta “urbanizzazione” della questione casa rischia di essere particolarmente inadeguata per le componenti più propriamente sociali del fabbisogno abitativo.
In effetti la resa sociale delle varie tipologie di programmi di riqualificazione urbana proposta negli ultimi lustri è stata finora abbastanza modesta.
Quanto a programmi come i Contratti di Quartiere conviene forse valutarne la loro natura di strumenti idonei ad affrontare specifiche questioni di “sviluppo sociale” urbano: oltre e più che come politiche sociali abitative. anche per questi programmi del tutto peculiari, il contributo dato all’ampliamento dell’offerta abitativa sociale è stato generalmente modesto.
Di conseguenza, sembra opportuno che il Piano in parola rinunci a introdurre un nuovo strumento tale da affrontare contestualmente il problema dell’incremento del patrimonio abitativo sociale e la riqualificazione di parti urbane. Dato che la posta in gioco è la casa, cioè una posta in gioco rilevante e socialmente sensibile, la declinazione operativa del Programma Integrato di promozione di edilizia residenziale anche sociale dovrebbe riscoprire un nuovo approccio di tipo settoriale.

Il Programma Integrato potrebbe essere interpretato come uno strumento di coordinamento dei vari interventi volti a incrementare, in ciascun territorio regionale, il patrimonio di edilizia residenziale in risposta al fabbisogno specifico effettivamente rilevato e/o stimato per ciascuna delle diverse tipologie di offerta sociale di casa.
In altri termini, il Programma Integrato andrebbe ad assumere il compito di tenere insieme in un unico quadro di intervento a livello regionale, un insieme di progetti e azioni differenti sia per localizzazione sia per target di domanda.
Di conseguenza, l’Accordo di Programma di cui all’articolo 4 dello schema di decreto sarebbe suscettibile di introdurre nel settore delle politiche abitative uno strumento negoziale di governo delle politiche regionalmente definite tale da definire, in concerto tra Stato, Regioni ed Enti territoriali, gli obiettivi da conseguire e il programma degli interventi di interesse comune da realizzare.

In questo senso, il Piano sarebbe articolato in due distinte “linee di intervento”:
a) il sistema integrato dei fondi immobiliari, già previsto dall’articolo 1, comma 1, lettera a) dello schema di decreto, a forte regia statale;
b) i programmi integrati già previsti alla lettera e) che, viceversa, sarebbero finalizzati attraverso la concertazione tra tutti i livelli di governo.
Le altre linee di intervento previste dall’articolo 1 dello schema di decreto in commento, invece, andrebbero a costituire le “tipologie di intervento”.
Alla luce di questa articolazione, i Programmi Integrati saranno costituiti dalla diversa combinazione, in ragione dei fabbisogni regionalmente riscontrati, delle tipologie di intervento di cui alle lettere b), c), d) ed f) nonché degli interventi di cui all’articolo 13. In questo senso è da adeguare il disposto dell’articolo 8, comma 1 dello schema di decreto.

Anche sotto il profilo dell’articolazione delle risorse finanziarie del Piano come disciplinate dall’articolo 3 dello schema di decreto, la suddivisione tra le lettere a) e b) è da eliminare.


5 - Gli strumenti attuativi del Piano: il modello di governance e il superamento della competizione a livello nazionale
Il Piano è attuato in due modi alternativi previsti esplicitamente dall’articolo 11 della legge 133/08:
a) con accordi di programma ex articolo 81 DPR 616/77 ridefiniti dal DPR 18 aprile 1994, n.383, approvati con DPCM al fine di realizzare i programmi integrati di promozione di edilizia residenziale e di riqualificazione urbana (PIPERRU) e dichiarati quindi di interesse strategico nazionale;
b) con l’utilizzo delle modalità dedicate alle infrastrutture strategiche e agli insediamenti produttivi di cui al Dlgs 12 aprile 2006, n.163.

Gli articoli 9 e 10 dello schema di decreto, però, aggiungono una sorta di grande bando di concorso a livello nazionale mettendo in competizione le diverse aree del Paese attraverso la predisposizione di diversi programmi.
Questa architettura del Piano Casa sembra, in primo luogo, in contrasto con gli orientamenti della legge 133/08 in relazione alla volontà di orientare gli interventi attuativi del Piano stesso sia “tenendo conto dell’effettivo bisogno abitativo presente nelle diverse realtà territoriali” (cfr. articolo 11, comma 3) sia in funzione della concentrazione degli interventi “sulla effettiva richiesta abitativa dei singoli contesti”. In una procedura concorsuale, al più, si perseguono altri obiettivi, quali la trasparenza e l’imparzialità ma le funzioni di accompagnamento e di orientamento strategico vengono necessariamente meno.
Inoltre, l’approccio dello schema di decreto sembra essere fondato sulla volontà di articolare il Piano quale sommatoria di programmi riferiti a tanti singoli contesti piuttosto che su un ragionamento più ampio esteso alla pianificazione di area vasta. Il che, in pratica, porta a curare il male dove si manifesta (rapporto dimensionale tra richiesta abitativa e dimensione demografica) anziché approfondirne le cause e organizzare rimedi che possano andare oltre l’emergenza dei grandi agglomerati urbani.

L’approccio che sembra essere stato assunto dallo schema di decreto rinuncia a porsi nell’ottica dello sviluppo territoriale sostenibile ma solo in quella di risolvere il problema dove è manifesto, anziché porsi il problema di una corretta disposizione delle funzioni residenziali in relazione al corretto uso delle risorse territoriali disponibili che sarebbe più pertinente per un Piano che è di livello nazionale. E comunque a prescindere, di fatto, da un’approfondita analisi né comprensione delle cause che lo generano.

L’impostazione data nei due precedenti paragrafi, invece, annulla la competizione tra programmi locali, in quanto la ripartizione delle risorse finanziarie è antecedente la fase della costruzione dei singoli programmi: cioè è un dato di base del Piano e non è un esito di una procedura concorsuale.
Inoltre, con l’impostazione che si è data del Programma Integrato (in linea di prima approssimazione uno per regione), la fase concorrenziale vera e propria è gestita dalle singole regioni ai sensi dell’articolo 8, comma 2 dello schema di decreto.
Infine, la commissione di cui all’articolo 9, invece di essere “selezionatrice” potrà assumere un ruolo di “coordinamento”.

Sul punto è opportuno rilevare che, come ha chiarito bene la Corte Costituzionale con sent. 303/03, allo Stato non spetta soltanto la determinazione dei livelli essenziali quanto anche l’indirizzo di coordinamento. La Corte ha detto che lo Stato (ma questa non è una novità, perché è l’art. 118 della Costituzione a dirlo) può trattenere presso di sé le funzioni amministrative funzionali a perseguire esigenze di uniformità a livello nazionale. Ma la novità della sentenza citata è data dalla possibilità ammessa che oltre ai poteri di amministrazione lo Stato possa trattenere anche i conseguenti poteri di legislazione.
Sul fronte delle politiche abitative, è evidente l’importanza che lo Stato mantenga una “regia” non solo sul piano legislativo ma anche su quello amministrativo. Sul piatto, c’è l’individuazione di un idoneo strumento che, nell’ambiente istituzionale sussidiario, possa adeguatamente sostituire –non nei compiti ma nel ruolo- la funzione del vecchio CER. Un’esemplificazione ne ha dato la stessa sent. 363/03 C. Cost. concernente le strutture serventi del Ministero del Lavoro per la “promozione dell’occupazione (…) sull’intero territorio nazionale”.
Per quanto attiene lo specifico del Piano Casa, quindi, sarebbe quanto mai utile e opportuno la presenza di un comitato di coordinamento che, oltre a perfezionare e accompagnare i singoli Programmi Integrati in funzione degli Accordi di Programma da stipularsi a norma dell’articolo 4 dello schema di decreto, possa svolgere la funzione di coordinamento tra le diverse regioni italiane per l’affinamento e l’attuazione del Programmi stessi.

6 - La premialità urbanistica tra ordinari età degli obblighi e sua disciplina
Nell’ambito dei PIPERRU, gli interventi possono essere attuati -oltre che in applicazione dell’articolo 1, comma 258 della legge 244/07 (Legge Finanziaria 2008)- anche mediante le cinque fattispecie previste dall’articolo 11, comma 3 della legge 133/08 che hanno la funzione di conferire maggiore operatività al disposto dell’articolo 1, comma 259 della già ricordata Legge Finanziaria 2008.
In particolare, l’istituto di cui alla lett. e) implica la nascita di diritti edificatori apparentemente distinti dai diritti di proprietà che, nel quadro della legislazione italiana, sono un elemento assolutamente originale. È la prima volta nella storia dell’ordinamento repubblicano, infatti, che compare il diritto edificatorio quale entità quasi astratta, non espressamente collegata al diritto di proprietà ma esclusivamente legata al perseguimento di obiettivi pubblici. E’ da considerare un fatto eccezionale che una legge faccia intravedere la possibilità di “creare” dal nulla un titolo edificatorio ponendolo a compensazione di specifici interventi di edilizia residenziale sociale e, inoltre, anche a compensazione di altre urbanizzazioni o realizzazioni di interesse pubblico attinenti la riqualificazione urbana e il miglioramento della mobilità.
L’introduzione di diritti edificatori non legati ai suoli ma di esclusiva potestà pubblica, al pari della scelta dei suoli da rendere edificabili attraverso accordi di programma a seguito di bandi concorrenziali (cfr. articolo 8, comma 2 dello schema di decreto), è istituto idoneo a rendere labili gli accordi che definiscono l’ammontare complessivo dell’offerta sul mercato locale e incerta ogni politica di difesa del prezzo basata sul contingentamento dell’offerta da parte dei proprietari dei suoli edificabili. Si tratta di un’innovazione che se da un lato è suscettibile di rompere finalmente la possibilità di formare cartelli oligopolistici, dall’altro appare limitata ai soli programmi attuativi del Piano casa in parola, in ciò determinando inevitabilmente un doppio canale per la formazione del diritto edificatorio che appare assai fragile in sede di valutazione costituzionale dell’applicazione del principio di equità e dell’aderenza agli attuali rapporti costituzionali di ripartizione dei compiti legislativi tra Stato e regioni.

In ogni caso, ed è quello che interessa il presente documento, occorrerebbe che il Piano precisasse maggiormente i contorni dei meccanismi attuativi degli interventi sostenuti dalle risorse finanziarie pubbliche sia di quelli disciplinati dall’articolo 13 dello schema di decreto.
In primo luogo, occorre rilevare l’opportunità di inserire quale contenuto minimo di ciascun intervento ricompreso dal Piano, segnatamente di quelli non esclusivamente di edilizia residenziale sociale, il soddisfacimento degli obblighi previsti dall’articolo 1, comma 258 della legge 244/07. Oltre questo contenuto minimo, potrebbero dispiegarsi le agevolazioni previste dall’articolo 11, comma 5 della legge 133/08.
E, sul punto, occorre altresì rilevare che il testo del Piano non fa mai riferimento alle necessità di trovare una misura congrua, un rapporto tra la misura del vantaggio –che, nel testo del Piano, diviene il “favore”- e la dimensione del patrimonio abitativo sociale corrispondente. Inoltre, la cessione dei diritti edificatori per come descritta appare non commisurare specificatamente il valore dei titoli ceduti a quello del valore pubblico “creato”.
Ben diverso era stato, ad esempio, l’approccio al tema dell’ERS che evidenziava al comma 259 del già ricordato articolo 1 della legge 244/07, laddove si evidenziava, seppur laconicamente, la necessità di individuare una “relazione” tra “l’entità e il valore della trasformazione” privata e la cessione di aree e i costi di realizzazione dell’ERS stessa.