Qualche tempo fa mi era stato chiesto quale quota di alloggi in affitto rispetto al complessivo stock edilizio occupato si può traguardare quale obiettivo di una politica abitativa.
Seppur la questione non è particolarmente modaiola, mi sembra che possa meritare un appunto.
La risposta migliore, a parte dire che non esiste un solo numero, mi pare debba essere ricercata nei rapporti tra quota di alloggi in affitto e performance dei sistemi economici, segnatamente per quanto riguarda la disponibilità di offerta di lavoro.
La tesi è che una certa mobilità geografica dei lavoratori può influenzare i meccanismi di aggiustamento del mercato del lavoro, nel senso che una ridotta mobilità geografica può ostacolare i processi di riequilibrio delle disparità regionali esistenti nei tassi di occupazione e disoccupazione.
E la mobilità geografica è ostacolata da tanti fattori. Ma -ed è un dato di fatto- la propensione a cambiare residenza geografica è relativamente più bassa per chi è proprietario della propria abitazione rispetto a chi è semplicemente in affitto a causa dei maggiori costi di transazione insiti nel cambiare un’abitazione di proprietà e per il rischio connesso di perdite in conto capitale.
Non casualmente, nel momento in cui scrivevo la risposta, arrivava la notizia del dato riferito alla mobilità geografica USA: il più basso degli ultimi quarant’anni. Il motivo è evidente: vendere la propria casa quando i prezzi degli immobili sono crollati significa vendere a un prezzo molto inferiore rispetto a quello di acquisto.
Una volta individuata la tesi, occorre metterci qualche numero, dato che la domanda posta implica l'individuazione di una soglia obiettivo.
La tesi è che una certa mobilità geografica dei lavoratori può influenzare i meccanismi di aggiustamento del mercato del lavoro, nel senso che una ridotta mobilità geografica può ostacolare i processi di riequilibrio delle disparità regionali esistenti nei tassi di occupazione e disoccupazione.
E la mobilità geografica è ostacolata da tanti fattori. Ma -ed è un dato di fatto- la propensione a cambiare residenza geografica è relativamente più bassa per chi è proprietario della propria abitazione rispetto a chi è semplicemente in affitto a causa dei maggiori costi di transazione insiti nel cambiare un’abitazione di proprietà e per il rischio connesso di perdite in conto capitale.
Non casualmente, nel momento in cui scrivevo la risposta, arrivava la notizia del dato riferito alla mobilità geografica USA: il più basso degli ultimi quarant’anni. Il motivo è evidente: vendere la propria casa quando i prezzi degli immobili sono crollati significa vendere a un prezzo molto inferiore rispetto a quello di acquisto.
Una volta individuata la tesi, occorre metterci qualche numero, dato che la domanda posta implica l'individuazione di una soglia obiettivo.
Iniziamo a partire da un’evidenza empirica: nel contesto europeo, l’Italia si caratterizza per un grado piuttosto basso di mobilità geografica interna. Secondo i dati Ocse in mio possesso (purtroppo risalgono al 2003) solo lo 0,6% della popolazione di età compresa fra i 15 e i 64 anni risulta aver cambiato regione di residenza nel corso dell’anno, rispetto all’1,4% della Germania, al 2,1% della Francia, al 2,3% del Regno Unito. Più in generale, il grado di mobilità geografica fra le diverse regioni di uno stesso paese risulta mediamente più basso in Europa rispetto agli Stati Uniti (che è poco sopra il 3%).
Per quanto riguarda il legame fra situazione del mercato immobiliare e performance del mercato del lavoro, un report BCE di qualche anno fa trova una interessante correlazione positiva fra tasso di disoccupazione e grado di diffusione delle abitazioni in proprietà per i principali paesi europei. Qui per approfondire.
Emerge un gruppo di Stati un po’ più virtuoso che registra -non casualmente- un’incidenza della proprietà che non supera il 60% dello stock edilizio. L’Italia, ad oggi, è poco sopra l’80%.
Per quanto riguarda il legame fra situazione del mercato immobiliare e performance del mercato del lavoro, un report BCE di qualche anno fa trova una interessante correlazione positiva fra tasso di disoccupazione e grado di diffusione delle abitazioni in proprietà per i principali paesi europei. Qui per approfondire.
Emerge un gruppo di Stati un po’ più virtuoso che registra -non casualmente- un’incidenza della proprietà che non supera il 60% dello stock edilizio. L’Italia, ad oggi, è poco sopra l’80%.
La riduzione dell’incidenza delle abitazioni in affitto sul totale, peraltro, è una tendenza che si è registrata anche negli altri paesi europei. Tuttavia, la riduzione è stata più accentuata in Italia che nella media dei paesi europei, e la quota di abitazioni in affitto è -come ormai tutti sanno- tra le più basse in Europa. In Europa, infatti, solo Spagna, Ungheria e Slovenia registrano una quota di patrimonio immobiliare in affitto più bassa che in Italia. A fronte del 18,6% italiano, la quota di patrimonio immobiliare in affitto risulta pari al 60% in Germania, tra il 40 ed il 50% in Austria, Danimarca, Francia, Olanda e Svezia e sopra il 30% in Gran Bretagna.
Conseguentemente, si può ritenere che la quota efficiente di offerta di alloggi in affitto, rispetto al totale delle abitazioni, non dovrebbe essere molto al di sotto del 40%. Rispetto alle condizioni attuali è un numero enorme: significa raddoppiare il comparto in affitto. Peraltro, in Italia tale situazione si è già verificata: negli anni ’70.
Da quel momento, una precisa politica pubblica -non sempre, infatti, le cose succedono per caso- ha spinto molto sul versante della proprietà. Tra le altre cose, ha significato eliminare la base di consenso dell’ex PCI. Un conto, infatti, è rivolgersi a un operaio o a un impiegato che vive in affitto: quella famiglia rimane sempre una famiglia operaia o impiegatizia. Tutt’altro conto è, invece, rivolgersi alla stessa famiglia che diventa proprietaria della propria casa: diventa una famiglia proprietaria. E muta completamente la sua identità sociale.
Conseguentemente, si può ritenere che la quota efficiente di offerta di alloggi in affitto, rispetto al totale delle abitazioni, non dovrebbe essere molto al di sotto del 40%. Rispetto alle condizioni attuali è un numero enorme: significa raddoppiare il comparto in affitto. Peraltro, in Italia tale situazione si è già verificata: negli anni ’70.
Da quel momento, una precisa politica pubblica -non sempre, infatti, le cose succedono per caso- ha spinto molto sul versante della proprietà. Tra le altre cose, ha significato eliminare la base di consenso dell’ex PCI. Un conto, infatti, è rivolgersi a un operaio o a un impiegato che vive in affitto: quella famiglia rimane sempre una famiglia operaia o impiegatizia. Tutt’altro conto è, invece, rivolgersi alla stessa famiglia che diventa proprietaria della propria casa: diventa una famiglia proprietaria. E muta completamente la sua identità sociale.
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