lunedì 6 ottobre 2008

rendita fondiaria e housing sociale

Di fronte all’allargamento quantitativo della domanda sociale di casa, la più importante sfida per chi è chiamato a governare il settore delle politiche per la casa è rappresentato dalla produzione di una nuova edilizia residenziale sociale che vada ad allargare l’offerta attualmente in essere. E l’entità di questa nuova produzione non è di poco conto: basti pensare che il solo fabbisogno pregresso in Liguria è stato recentemente stimato in 23.148 alloggi che, rispetto all’attuale offerta pubblica di casa (pari a 24.591), implica quasi un raddoppio dell’offerta esistente.
Questo ambizioso target è da raggiungere con un flusso di risorse pubbliche decrescenti che considerare insufficiente è quasi un eufemismo, basti pensare che nel 2011 per la prima volta in Liguria l’entità delle risorse finanziarie disponibili per il sostegno delle politiche abitative scenderà al di sotto della soglia dei 10 milioni di euro annui (per la precisione, € 9.255.909). E, per gli anni seguenti, in assenza di contribuzioni statali al momento neppure ipotizzabili, l’andamento sarà decrescente.

L’enucleazione di questi due vincoli esterni al ragionamento, non solo rendono obbligatorio il ricorso al partenariato pubblico-privato e a tecniche di finanza di progetto, ma presumibilmente debbono aprire il fronte di riflessione anche ad altre ipotesi utili a finanziare gli investimenti nel settore delle politiche abitative. La risorsa più importante, per molto tempo dimenticata, è rappresentata dalla rendita fondiaria.
Dato per acquisito il carattere ineliminabile della rendita fondiaria urbana e l’opportunità (se non la necessità) di un suo recupero il più ampio possibile per finalità pubbliche, è lecito valutare se la formazione delle rendite fondiarie urbane siano oggi fenomeni di entità così tanto trascurabile, se non addirittura residuali per dimensione economica.
Ed ecco che qualche semplice ragionamento aggregato alla scala nazionale e fondato su alcune simulazioni del Cresme, forse, ci porteranno a considerare che proprio il trattamento della rendita fondiaria urbana può essere uno delle sfide di governo più importanti nel breve-medio periodo.

Negli ultimi 10 anni (1998-2007), in Italia si sono costruite circa 2,5 milioni di nuovi alloggi. Di queste, circa i 2/3, per complessivi 212 milioni di nuovi mq, sarebbero localizzati nei tanti sistemi urbani che strutturano la penisola.
Sempre secondo il Cresme, la differenza tra i costi totali (inclusi quindi i costi dell’area, le spese tecniche, gli oneri concessori e finanziari) e i prezzi di vendita oscillerebbe tra un minimo di 1.236 €/mq e un massimo di 2.581 €/mq.
A partire da questi dati empirici aggregati, possiamo considerare che la differenza tra costi totali di produzione e ricavi da vendite sia una proxy dei plusvalori fondiari e immobiliari. A questo punto, è immaginabile che una quota di tali plusvalori sia destinata a finanziare investimenti pubblici per migliorare la qualità urbana delle nostre città, tra cui ovviamente anche la nuova produzione di ERS.
Supponendo un recupero dei plusvalori dell’ordine del 50% si arriva a determinare un ammontare di risorse di cui disporre dell’ordine di 15/20 miliardi di euro l’anno per ogni anno dei dieci considerati. È del tutto evidente che la valutazione sconta molte semplificazioni, però, qualitativamente qualcosa è in grado di comunicare.

Non sembri, peraltro, un esercizio astratto, dato che considerare un recupero dei plusvalori per usi pubblici pari al 50% non è affatto un’ipotesi di scuola: nei bandi per i programmi integrati nella cosiddetta “periferia consolidata” di Roma, i contributi straordinari aggiuntivi richiesti sono stati dell’ordine dei 700/900 €/mq: e non mi risulta che ci sia stato il deserto. E consideriamo che la quota del 20% dell’edificabilità da riservare alla contestuale produzione di ERS, come nel caso di Firenze, significa che rispetto a un intervento di 2.000 mq di SLP, gli alloggi di ERS equivalgono a un contributo aggiuntivo pari a circa 400/450 €/mq.
Sul punto, è bene ricordare come un recente contributo di Camagni riferito all’esperienza di Monaco di Baviera ha evidenziato che la ripartizione tra pubblico e privato tra rendite, profitti e utilità collettive dei valori generati da trasformazioni urbanistiche arriva proprio ad assetti riconducibili al 50% di cui sopra.

E adesso un paio di riflessioni conclusive.
Da più parti se sente dire che la struttura degli attuali oneri concessori è del tutto obsoleta. Mi limito soltanto a far rilevare –e mi appoggio sempre a elaborazioni svolte dal Cresme- come nell’ambito di una normale operazione immobiliare, il peso degli oneri concessori sia quasi costantemente inferiore a quello del servizio del debito. Cioè, un onere molto limitato nel tempo, qual è appunto il costo del servizio del debito, risulta addirittura superiore al costo del diritto a edificare che, viceversa, è permanente!!!

La ipotesi di recupero del plusvalore registrano resistenze a seconda dei soggetti che operano. In altri termini, nelle grandi operazioni si tende a vedere all’opera operatori (i big) che operano in regime di monopolio o quasi monopolio e, inoltre, uniscono le figure del developer, del proprietario e anche del costruttore. Nelle operazioni più modeste, soprattutto laddove esiste un minimo di confronto concorrenziale, troviamo invece impegnati medi o anche piccoli imprenditori del settore edilizio, il cui orizzonte di impresa prevede il sostanziale reinvestimento nel settore immobiliare.
Nel primo caso, il livello di interlocuzione politica e, soprattutto, un orizzonte di impresa che prevede il reinvestimento dei plusvalori fondiari e immobiliari in altri settori, rende molto difficile sostenere le ipotesi fatte in merito al recupero degli stessi plusvalori per finalità pubbliche. E l’Italia presenta alcuni significativi casi di gruppi industriali e finanziari cresciuti proprio in simbiosi con la promozione immobiliare: basta guardare la composizione della più recente creatura del capitalismo italiano, cioè la Compagnia Aerea Italiana (CAI). Nel secondo caso, invece, l’ipotesi fatta di recupero di quota parte della rendita fondiaria urbana sembra molto più praticabile.
Finchè, quindi, la ricchezza generata dalle grandi trasformazioni urbane prenderà altre strade rispetto allo specifico del settore immobiliare, sarà un po’ più difficile trovare risorse finanziarie sufficienti a finanziarie la riqualificazione delle nostre città e l’allargamento dell’offerta di housing sociale.

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