Qualche giorno fa, nell'ambito di una rassegna estiva, c'è stata la presentazione dell'esperienza di realizzazione del Giardino della pace e della speranza a Kabul. Ho scritto questi appunti sul più generale rapporto tra città, memoria collettiva e catastrofe.
L’incontro con i coniugi Laura Eastman e Donald Malcolm e la loro esperienza a Kabul nel post-conflitto afgano
sollecita, tra le varie cose, anche una riflessione sull’intervento umanitario
dopo gli eventi catastrofici, siano questi bellici o naturali (terremoti,
tsunami,…). Riflessione utile ad andare oltre gli stereotipi della narrazione
della pace e dei pacifisti, a superare lo “spettacolo del dolore” che ha finito
per portare le fotografie del bambino con la mosca alla bocca sui banner
pubblicitari dei siti internet.
Tra i vari temi su cui siamo
sollecitati dal racconto della realizzazione del Giardino della Pace e della
Speranza di Kabul c’è anche quello riferito alla memoria -in particolare la
memoria del trauma- al suo rapporto con il conflitto e con il lungo processo
post-conflitto, che spesso, come nel caso afgano, viene a essere interessato
anche dall’intervento degli eserciti internazionali.
Normalmente l’idea di
trauma, elaborata da Freud dopo la Prima Guerra mondiale, è di tipo psicologico
–se non psichiatrico- e comunque
individuale. Con il racconto di Malcolm e Eastman, invece, cerchiamo di
indagare la dimensione collettiva del trauma e la sua rappresentazione pubblica
che, nei casi più evidenti, dà luogo ai monumenti e alla costruzione di spazi specificatamente
dedicata alla memoria. Ma in quelli meno evidenti, le altre forme di
rappresentazione collettiva della città colpita da un evento traumatico restano
prevalentemente sottotraccia, finendo per generare fenomeni che vanno dal
risentimento alla rimozione.
Il rapporto tra spazi o
architettura della città e memoria, soprattutto nel caso di eventi
catastrofici, è infatti molto più complesso rispetto all’ordinario: solo poche
volte, infatti, si esaurisce nella forma del Memoriale, cioè del monumento
celebrativo. Ma molto più spesso, tale rapporto interagisce direttamente con i
luoghi che hanno subito eventi traumatici e che diventano simboli essi stessi
dell’evento: siano ad esempio il campo verde appena fuori la città, le macerie
causate da un bombardamento, un terrain vague o vecchi palazzi fatiscenti. E l’esigenza
di ricordare, ma anche la volontà di riscatto e di ritorno alla vita quotidiana,
rendono molto difficile, se non quasi impossibile, l’intervento di
ricostruzione fisica degli spazi.
Ripercorrendo la storia
di città disastrate dalla guerra -come ad esempio Beirut, Berlino, Sarajevo-,
si è ormai compreso quanta e quale sia la rilevanza simbolica delle strutture
urbane nel vissuto quotidiano dei suoi abitanti e, soprattutto, quanto essa
possa essere stata arricchita o mutilata dalla guerra stessa. Che, in estrema
sintesi, finisce per essere un elemento che ingrandisce moltissimo l’esigenza
di identificazione negli spazi urbani e, nello stesso tempo, un potentissimo
strumento che incita alla completa rimozione di tutti gli elementi fisici che
ricordano il trauma.
Flickr by Matthew
Per capire questa
divergenza di esigenze, occorre pensare alla popolazione residente non come a
un corpo sociale omogeneo. Ci sono, infatti, quelli che non hanno mai
abbandonato la città anche durante la guerra; ma ci sono anche i nuovi
insediati, cioè chi arriva ad abitare le città solo dopo l’evento traumatico;
infine, ci sono quelli che ritornano in città dopo la guerra, dopo essere
scappati. Tra tutte queste “popolazioni” la percezione della città è
profondamente differente: il rischio è che l’una non capisca l’altra.
Per i vecchi abitanti è
prioritario salvaguardare i valori identitari che la città rappresenta e in cui
essi si riconoscono; per i nuovi abitanti, invece, le sfide percepite sono
quelle di ogni tipica realtà urbana, come se l’evento drammatico non fosse mai
avvenuto: economia, verde urbano, traffico, collegamenti pubblici,…
A fronte di un punto di
partenza così frammentato e complesso, la ricostruzione di una città colpita da
un evento catastrofico è caratterizzata dall’emergenza, dato che deve subito
rispondere alla necessità della sua ricostruzione fisica, al fine di restituire
un luogo dove vivere agli abitanti. Non c’è posto per altre strategie di
medio-lungo termine. Il rischio è quindi quello di procedere senza avere una
precisa idea di città: si continua a procedere per parti, componenti un puzzle
di progetti che, alla fine, con difficoltà possono dialogare tra loro. In
definitiva, il risultato è una pluralità di città contenute in un’unica città,
diversificate in relazione all’immaginario di partenza, ai riferimenti
culturali e alla storia dei singoli gruppi di abitanti rispetto alla guerra.
La grande scommessa degli
interventi umanitari post conflitto è quindi far sì che una città possa
impiegare energie e creatività per trasmettere ai nuovi abitanti i valori
identitari che sono stati strenuamente difesi anche durante il periodo bellico,
rinnovando in questo modo una memoria che ha rischiato di essere perduta per
sempre durante la catastrofe.
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