domenica 14 luglio 2013

Città, memoria collettiva e catastrofe

Qualche giorno fa, nell'ambito di una rassegna estiva, c'è stata la presentazione dell'esperienza di realizzazione del Giardino della pace e della speranza a Kabul. Ho scritto questi appunti sul più generale rapporto tra città, memoria collettiva e catastrofe.


L’incontro con i coniugi Laura Eastman e Donald Malcolm e la loro esperienza a Kabul nel post-conflitto afgano sollecita, tra le varie cose, anche una riflessione sull’intervento umanitario dopo gli eventi catastrofici, siano questi bellici o naturali (terremoti, tsunami,…). Riflessione utile ad andare oltre gli stereotipi della narrazione della pace e dei pacifisti, a superare lo “spettacolo del dolore” che ha finito per portare le fotografie del bambino con la mosca alla bocca sui banner pubblicitari dei siti internet.

Tra i vari temi su cui siamo sollecitati dal racconto della realizzazione del Giardino della Pace e della Speranza di Kabul c’è anche quello riferito alla memoria -in particolare la memoria del trauma- al suo rapporto con il conflitto e con il lungo processo post-conflitto, che spesso, come nel caso afgano, viene a essere interessato anche dall’intervento degli eserciti internazionali.
Normalmente l’idea di trauma, elaborata da Freud dopo la Prima Guerra mondiale, è di tipo psicologico –se non psichiatrico-  e comunque individuale. Con il racconto di Malcolm e Eastman, invece, cerchiamo di indagare la dimensione collettiva del trauma e la sua rappresentazione pubblica che, nei casi più evidenti, dà luogo ai monumenti e alla costruzione di spazi specificatamente dedicata alla memoria. Ma in quelli meno evidenti, le altre forme di rappresentazione collettiva della città colpita da un evento traumatico restano prevalentemente sottotraccia, finendo per generare fenomeni che vanno dal risentimento alla rimozione.

Il rapporto tra spazi o architettura della città e memoria, soprattutto nel caso di eventi catastrofici, è infatti molto più complesso rispetto all’ordinario: solo poche volte, infatti, si esaurisce nella forma del Memoriale, cioè del monumento celebrativo. Ma molto più spesso, tale rapporto interagisce direttamente con i luoghi che hanno subito eventi traumatici e che diventano simboli essi stessi dell’evento: siano ad esempio il campo verde appena fuori la città, le macerie causate da un bombardamento, un terrain vague o vecchi palazzi fatiscenti. E l’esigenza di ricordare, ma anche la volontà di riscatto e di ritorno alla vita quotidiana, rendono molto difficile, se non quasi impossibile, l’intervento di ricostruzione fisica degli spazi.

Ripercorrendo la storia di città disastrate dalla guerra -come ad esempio Beirut, Berlino, Sarajevo-, si è ormai compreso quanta e quale sia la rilevanza simbolica delle strutture urbane nel vissuto quotidiano dei suoi abitanti e, soprattutto, quanto essa possa essere stata arricchita o mutilata dalla guerra stessa. Che, in estrema sintesi, finisce per essere un elemento che ingrandisce moltissimo l’esigenza di identificazione negli spazi urbani e, nello stesso tempo, un potentissimo strumento che incita alla completa rimozione di tutti gli elementi fisici che ricordano il trauma.


Flickr by Matthew

Per capire questa divergenza di esigenze, occorre pensare alla popolazione residente non come a un corpo sociale omogeneo. Ci sono, infatti, quelli che non hanno mai abbandonato la città anche durante la guerra; ma ci sono anche i nuovi insediati, cioè chi arriva ad abitare le città solo dopo l’evento traumatico; infine, ci sono quelli che ritornano in città dopo la guerra, dopo essere scappati. Tra tutte queste “popolazioni” la percezione della città è profondamente differente: il rischio è che l’una non capisca l’altra.
Per i vecchi abitanti è prioritario salvaguardare i valori identitari che la città rappresenta e in cui essi si riconoscono; per i nuovi abitanti, invece, le sfide percepite sono quelle di ogni tipica realtà urbana, come se l’evento drammatico non fosse mai avvenuto: economia, verde urbano, traffico, collegamenti pubblici,…

A fronte di un punto di partenza così frammentato e complesso, la ricostruzione di una città colpita da un evento catastrofico è caratterizzata dall’emergenza, dato che deve subito rispondere alla necessità della sua ricostruzione fisica, al fine di restituire un luogo dove vivere agli abitanti. Non c’è posto per altre strategie di medio-lungo termine. Il rischio è quindi quello di procedere senza avere una precisa idea di città: si continua a procedere per parti, componenti un puzzle di progetti che, alla fine, con difficoltà possono dialogare tra loro. In definitiva, il risultato è una pluralità di città contenute in un’unica città, diversificate in relazione all’immaginario di partenza, ai riferimenti culturali e alla storia dei singoli gruppi di abitanti rispetto alla guerra.


La grande scommessa degli interventi umanitari post conflitto è quindi far sì che una città possa impiegare energie e creatività per trasmettere ai nuovi abitanti i valori identitari che sono stati strenuamente difesi anche durante il periodo bellico, rinnovando in questo modo una memoria che ha rischiato di essere perduta per sempre durante la catastrofe.


Flickr by Jake Richter